In vista della tradizionale e benedetta pausa agostana che congelerà per qualche tempo anche le attività del blog, Alle cinque della sera si allinea alla tradizione dei migliori periodici, offrendo ai suoi lettori una lettura per l'estate.
Il testo che trovate qua sotto è un estratto da Il toro non sbaglia mai, precisamente da quel capitolo 3 che ha scombussolato i sentimenti di chi l'ha letto: è vero, non è certo con obiettività che abbiamo affrontato quelle pagine, ma qua siamo di fronte ad un pezzo di bravura davvero raro.
Ora, è del tutto probabile che chi frequenta questo blog abbia già divorato il libro di Matteo Nucci, ma tant'è: un ripassino sotto l'ombrellone non fa certo male, e chi sa che invece non possiamo conquistare nuovi appassionati alla letteratura taurina e, certo, ai tori.
Buona lettura.
ps: sì, è solo un estratto ed è un peccato troncarlo così; vorrà dire che chi apprezzerà queste righe non potrà far altro che andarsi a comprare il libro, per leggere tutto.
ALLE CINQUE DELLA TARDE
La
mattina del 16 maggio 1920 a Talavera de la Reina l’aria era mite, il sole
ancora obliquo e i giardini del Prado profumavano di gelsomino.
Nelle
stalle della plaza de toros La Caprichosa, Bailador sembrava il più piccolo fra
i tori. Era accucciato in un angolo e sonnecchiava, mentre Blanquete, il fido banderillero di Joselito, attraversava il giardino
per assistere al sorteggio dei tori. Il suo maestro dormiva
ancora. Dicono che non sognò nulla, quella notte, Joselito.
La
mattina del 31 maggio 1931, come spesso capita a Madrid, un’aria fredda scese
sulla città dalla Sierra de Guadarrama. Attorno alla plaza della Carretera de
Aragón uomini e donne passeggiavano coperti da pesanti cappotti e ignoravano i
movimenti attorno all’arena. I subalterni dei tre toreri del giorno arrivarono puntuali
al sorteggio. Gridarono le frasi di rito mentre si stabilivano le coppie di
animali, poi andarono a vedere i rispettivi tori nelle stalle. «Stavolta sì che
ci sono tori per fare una bella corrida» disse il peón di Gitanillo de Triana, guardando
Fandanguero.
Era
un animale bello, elegante, di evidente trapío, e sembrava dominare su tutti gli
altri con calma e nobiltà. La mattina dell’11 agosto 1934, Manzanares affondava
in una pozza di sole. Le terre bruciate di Castiglia sembravano lande desertiche.
Due bambini succhiavano limonate fredde mentre il padre si voltava sorpreso
verso l’ingresso della plaza de toros.
Mormorò
qualcosa e i bambini lo guardarono. «Che dici, papà?».
«Nulla,
nulla» rispose l’uomo. «Quello che è entrato ora è un uomo famoso. Lo
conoscerete, un giorno. Si chiama Ignacio Sánchez Mejías. È un artista, uno
scrittore, un torero. Chissà perché è venuto di persona al sorteggio. Non vengono
mai, i toreri, al sorteggio». E infatti era annoiato dall’incombenza, il torero
intellettuale. E non diede che un’occhiata veloce ai suoi tori e lesse di
sfuggita i nomi e non si ricordò affatto, più tardi, che uno dei due si
chiamava Granadino.
La
mattina del 28 agosto 1947 il caldo a Linares era soffocante.
Sulle
finestre delle case andaluse erano srotolate tende di canapa spessa e per le
vie della città non si sentiva che il cigolio di carretti che si spostavano
lentamente. Ormai considerato invincibile, Manolete riposava. Aveva viaggiato
di notte da Madrid sulla sua Buick blu attraversando paesini polverosi dove chi
abita sulla strada principale, al sentire lo stridore dei freni, accosta un
occhio alla persiana e riconosce l’automobile del più grande matador di Spagna.
Adesso, dentro la plaza de toros di Santa Margarita, Cantimplas il suo fido
subalterno disse qualcosa all’orecchio del collega che lavorava per un altro
matador. Quello fece segno di sì con la testa mentre Cantimplas indicava il toro
e se ne
segnava
il nome: Islero.
La
mattina del 30 agosto 1985 a Colmenar Viejo l’umidità aveva schiuso odori che
preannunciavano settembre. Dal belvedere della città una coppia di amanti si
stringeva la mano prima di salutarsi
e
intanto, attorno alla plaza de toros già tutto era in movimento.
Nelle
stalle un toro di nome Burlero si era liberato dei compagni dimostrando ancora
una volta chi fosse a dominare là in mezzo. Gli altri animali si erano ritratti
immediatamente. La giovane promessa
di
Spagna, invece, El Yiyo, dormiva ancora nella stanza 103 dell’hotel Palmi a
Miraflores, poco lontano da Colmenar. Era andato a letto tardi, lo avevano
raggiunto le guardie civili mentre guidava fra
Cahorra
e Madrid assieme a Tomás Redondo, il suo impresario, per
avvertirlo
che l’indomani avrebbe toreato a Colmenar Viejo. Doveva riposare, adesso. Un
buon torero deve saper riposare.
***
La
plaza ha ancora le stesse dimensioni a Talavera de la Reina e la cupola della
basilica Nuestra Señora del Prado svetta molto al di sopra delle sue mura e al
di sopra anche di tutti gli alberi del parco.
La chiamano «la cappella Sistina della ceramica». È decorata dentro e fuori da azulejos che raccontano scene del Vecchio Testamento.
Alcune mattonelle sono attribuite a apprendisti di El
Greco. Sul lato posteriore della basilica, si apre l’ingresso alla plaza de
toros La Caprichosa. È una plaza bella e antica ma da dentro non si può
resistere alla tentazione di guardare altrove, ossia in alto, dove la cupola
della Basilica rompe il cielo. Soltanto gli spettatori seduti nelle tribune del
tendido 3 e parte di quelli confinanti non
possono vederla. Anche dall’arena, i toreri che lavorano accanto al tendido 3, se si distraessero a guardare il
cielo, non la vedrebbero.
Non
la vide Joselito, il 16 maggio 1920 quando fu scaraventato verso l’alto, l’ultimo
volo dell’angelo sivigliano che Bergamín avrebbe definito «un Lucifero
adolescente».
La
plaza – dicono – è stata la più bella che mai abbia avuto Madrid. Dal grande
piazzale Salvador Dalí oggi si fatica a immaginare. I palazzi intorno sono
paradigmatici di una certa modernità tipica della capitale. Uffici che il
venerdì si svuotano, vetrate pulite e scintillanti, asettiche stanze illuminate
da piccole lampadine che sembrano correre lungo carrelli metallici su soffitti
bianchi. E lì davanti, il Palazzo dello Sport. Fino al 1934, al posto della
struttura avveniristica c’era la plaza della Carretera de Aragón e fu inaugurata
da Lagartijo e Frascuelo, i due rivali di fine Ottocento.
Famosi
furono i duelli di Joselito e Belmonte nella cosiddetta età dell’oro della
tauromachia. Seguirono poi tutte le grandi sfide di quella che fu ribattezzata
«età d’argento», fino quasi alla guerra civile. Difficile oggi immaginare dove
si trovasse precisamente nell’arena Gitanillo de Triana, lo zingaro dotato di
un coraggioche metteva paura alla paura stessa, il 31 maggio del 1931.
La
plaza è bianca. È una piccola città, Manzanares ma la sua plaza de toros è un
monumento di bellezza che nessuno si sognerebbe di contestare. Inaugurata nel
1900, sulla facciata che nel sole sembra panna si aprono tre finestre in forma
d’arco coperte da grate di ferro battuto, mentre tutto intorno il muro è
coperto da tegole.
Ogni
cosa è insomma perfettamente in stile con le distese immense tipiche della
Castiglia-La Mancha, le terre di don Chisciotte. Ma non pensava a Cervantes,
Ignacio Sánchez Mejías l’11 agosto 1934.
Era un intellettuale, sì, era stato il mecenate della generazione del ’27,
quella di García Lorca e Bergamín, eppoi era stato già tutto: aviatore, pilota
automobilistico, presidente della Croce Rossa e del Betis Sevilla, attore di
cinema, romanziere, drammaturgo. Ma quando entrò nella plaza quel giorno non
pensava a Cervantes, perché Sánchez Mejías era soprattutto torero.
La
plaza di Linares è immutata. Salendo calle de Argüelles, dietro la cancellata
di ferro battuto che accompagna la strada a sinistra, il parco di aranci e
palme sembra nascondere un mistero, ma è difficile resistere alla tentazione di
tirar dritto verso la plaza de toros di Santa Margarita, nei suoi colori rosso,
ocra e bianco tipici delle arene andaluse. Sul muro bianco quasi accecante, un
muro così caldo che pare ci si possa infilare un dito dentro, s’intravede, fin
da Calle de Julio Burell, una placca che ripropone il disegno famoso, il
disegno del cartel più noto di tutta la storia della
corrida. C’è un uomo in posa statuaria che solleva la muleta rossa in un passo
per cui era famoso, l’ayudado por alto, un estatuario,
il passo esemplare del cosiddetto toreo
verticale, il modo di toreare immobile,
ieratico, austero e tirato, sempre rigorosamente longilineo, dritto – verticale
appunto.
Avvicinandosi
alle pareti di questa bellissima plaza costruita nel 1866, tra la porta 1 e la
prima biglietteria, il disegno di Manolete che si fa passare il toro a pochi
centimetri dal ventre non è corredato dalla scritta che si può vedere in mille
bar di Spagna con i nomi dei toreri e della ganadería.
C’è scritto solamente: PLAZA DE TOROS DE
LINARES.
JUEVES 28 AUGUSTO DE 1947,
FERIA Y FIESTA DE SAN AGUSTÍN.
Più
in basso, in bronzo, c’è l’inconfondibile profilo ossuto e parole di memoria.
«La statua» dice un vecchio passando «è nel parco».
La
plaza di Colmenar Viejo si vede fin dall’orizzonte. Dalla Carretera de Burgos, la strada che esce da Madrid in
direzione nord, la cittadina di Colmenar scivola sul fianco sinistro e le
estremità più alte sembrano listate a lutto. Avvicinandosi, sulla strada che abbandona
la carretera, una striscia rossa prende il sopravvento sul nero, prima che i
tetti delle case, in prospettiva, la oscurino definitivamente. Da quelle parti
c’è un parco dove s’incontrano gli innamorati a guardare la valle che si apre
in un’ampiezza che a volte pare infinita, e la strada che sale verso il parco e
la plaza de toros, con i suoi bordi più alti rossi e neri, attraversa una
rotonda in cui un giovane torero saluta alzando la muleta nella destra. Non era nato qui, El
Yiyo, ma è come se fosse l’eroe di tutti, ormai.
Non
si può pensare altrimenti, avvicinandosi alla plaza moderna, restaurata nel
1990, ben cinque anni dopo il 30 agosto 1985, quando in Spagna morì l’ultimo
matador de toros. Aveva soltanto 21 anni e la sua carriera sembrava destinata
verso chissà quali trionfi. La televisione lo ritrae nell’arena in una delle
sue più belle faenas. Le immagini di Colmenar Viejo sono
solo un po’ sgranate a recuperarle oggi su internet, ma si segue ogni cosa e
nulla è affidato all’immaginazione.
***
Dicono
che Bailador fosse un toro privo di casta. Certo, l’allevamento da cui proveniva
era ben poco conosciuto. Oggi, chiunque senta nominare la Viuda de Ortega sa di
cosa si parli. Gli eredi di quell’allevamento ormai scomparso si possono
ammirare a pochi chilometri da Talavera de la Reina, nella ganadería El Batán, tra due paesini che sono
grumi di piccole case: Castillo de Bayuela e El Real de San Vicente. Aveva
cinque anni, Bailador. Era piccolo e di corna piccole e suo padre, Canastillo,
era del temibile encaste Santa Coloma, mentre la madre,
Bailadora, era stata comprata dall’allevamento del
Duque de Veragua. Tra le tante qualità mitiche attribuite a Joselito c’è una
conoscenza totalizzante di ogni toro semental
di Spagna e ogni vacca da riproduzione,
tanto da riconoscerne i figli che si trovava a sfidare. Impossibile, ovvio.
Anche se è certo che Joselito conoscesse molto bene i tori di ogni allevamento.
Tuttavia è attestato che la ganadería
della Viuda de Ortega l’aveva a
malapena sentita nominare. Di questo torello che entrò trottando nell’arena di
Talavera dicono che non avesse casta, che fosse un toro manso, riluttante al combattimento.
Sicuramente vedeva male. Aveva una pessima vista ma Joselito decise di non
tenerne conto.
L’allevamento
di Fandanguero aveva storia breve, Nel 1920, Graciliano Pérez Tabernero comprò
un lotto di 130 vacche dal Conte di Santa Coloma assieme a due tori scelti in
una tienta per farsi stalloni. Il migliore fra i sementales si chiamava Mesonero, visse diciotto
anni e diede vita a almeno 1150 figli, tra vacche e tori. Uno di questi si
chiamava Fandanguero e, quando, nel maggio del 1931, fu preparato per un lotto
da spedire a Madrid, si pensò subito a suo fratello Ligero che nel 1925 era
stato premiato con un giro d’onore, premio che si riserva agli animali speciali
cui però non si accorda l’indulto. Dal modo in cui Fandanguero, 474 chili,
entrò in pista nella plaza della Carretera de Aragón, sembrò subito un toro
nobile e bravo e Gitanillo de Triana gli andò incontro
certo di riuscire a tirarne fuori il mistero, certo di poter lavorare l’animale
fino a capirlo e fino a farsi capire da lui. I minuti corsero via veloci e
quando il mozzo di spada gli si avvicinò per servirgli l’arma con cui uccidere
disse al torero: «Sta’ attento. Tira un po’ verso dentro». «Tirasse un po’ dove
vuole» gli rispose Gitanillo de Triana. «La vedrà lui. Ormai so bene come
trattarlo».
Granadino
apparteneva all’allevamento di don Demetrio e don Ricardo Ayala. Era un toro
piccolo, manso e astifino,
aveva cioè corna molto appuntite. Procurò qualche difficoltà nelle due fasi iniziali
della corrida ma Ignacio Sánchez Mejías ostentò disinteresse e si andò a sedere
sull’estribo per cominciare la faena. Su quella listarella di legno che
percorre tutta la palizzata e consente a chi voglia saltare nel callejón un punto d’appoggio sicuro, sull’estribo aveva l’abitudine di sedersi, Sánchez
Mejías, il grande intellettuale-torero, per sfidare il toro e il pubblico. Non
erano affatto le «cinco en punto de la tarde» come avrebbe scritto García Lorca.
Cinque
anni, allevamento Miura, 495 chili, nero, Islero parve subito un toro mediocre,
che perdipiù non vedeva bene e tendeva a usare il corno destro. Di fronte alla
cappa che Manolete gli aprì sul muso, Islero attaccò eppoi rallentò,
refrattario alla sua natura di combattente. Diede difficoltà anche ai due banderilleros, Cantimplas e Gabriel González, e
quando venne l’ora della faena, Camará, impresario di Manolete,
sussurrò al suo torero di fare un lavoro veloce. Manolete non volle ascoltarlo.
Toreò come in trance, pur di dimostrare a tutti di essere ancora e sempre il
numero uno. Muletazos, manoletinas, addirittura passi dati in ginocchio,
cosa assolutamente unica per il torero di Cordoba.
Due
volte rifiutò la spada che Carnicerito de Málaga, suo mozzo, cercava di
offrirgli su suggerimento di Camará per farla finita al più presto con una
stoccata rapida. Manolete ignorò qualsiasi
consiglio.
Voleva uccidere lentamente. Una di quelle stoccate magistrali per cui sarebbe
rimasto eterno. Una di quelle stoccate tanto lente che sembrava di vedere la
spada scivolare centimetro per centimetro tra le scapole dell’animale. Erano le
sei e quarantadue minuti.
Burlero
è un nome pericoloso. Nessuno si burla di nulla durante una corrida. Neppure
gli uomini nascosti dietro il burladero dovrebbero perché la burla umana nella
corrida è in realtà piena
di
rispetto. E infatti, uscì nobile e bravo
il sesto toro della sera a Colmenar
Viejo. Era nero berrendo, ossia macchie nere su fondo chiaro,
apparteneva all’allevamento di Marcos Núñez e fu ammirato
in
tutti e tre i terzi della corrida. El Yiyo era riuscito a tirar fuori il meglio
dell’animale e, quando lo uccise, la stoccata fu precisa. Morendo, Burlero
diede ancora due cornate. Con una fece cadere El Yiyo, con l’altra lo sollevò
da terra, da dietro, per l’ultima volta.
***
***
Gregorio
Corrochano fu critico taurino tra i più importanti del Novecento. In quel
giorno del 1920, a Talavera de la Reina, si riconciliava con Joselito dopo un
periodo di incomprensioni.
Quando
cominciò la faena disse al torero di fare attenzione.
Secondo Corrochano il toro vedeva male da vicino. Ma Joselito non tenne in
conto l’avvertimento. Pare che Blanquet il suo peón de confianza
non ebbe il tempo di dare altri
consigli perché il toro aveva stabilito come proprio terreno elettivo lo spazio
accanto a un cavallo appena morto e Blanquet non riusciva a portarlo lontano da
lì.
Joselito
entrò nella querencia, nella residenza, del toro. Agitò la muleta e il toro si avventò. Ma l’uomo era
troppo vicino. Bailador non vide l’inganno, non vide la muleta, diede una cornata alla coscia del
giovane torero e lo sollevò in aria, poi mentre l’angelo ricadeva lo prese con
l’altro corno perforandogli il ventre e l’intestino. Sánchez Mejías, che
toreava quel giorno in un mano a
mano con Joselito, suo cognato, entrò in
pista distraendo con un quite
perfetto Bailador, una di quelle mosse
con cui il torero si fa incontro al toro per tirarlo via dall’obiettivo su cui
sta scatenando la sua carica. I subalterni intanto raccolsero il corpo del
torero e lo portarono correndo verso l’infermeria della plaza: «Mi ha fatto
uscire
gli intestini» disse Joselito a Blanquet, poi svenne.
Dando
un passo di muleta a Fandanguero, Gitanillo de Triana si trovò
in aria a gambe divaricate. Il corno sinistro del toro nella coscia lo fece
girare eppoi lo sbatté contro la barriera. Lo stesso corno lo raccolse di nuovo
nell’altra coscia e di nuovo lo sbatté contro la barriera. Marcial Lalanda che toreava quel giorno
assieme a Gitanillo e Chicuelo, diede un quite
al toro ma l’animale ignorò il panno e
trafisse la schiena di Gitanillo. Allora Lalanda sferrò una ginocchiata contro
il muso di Fandanguero e lo portò lontano da Gitanillo che provò a alzarsi ma
non ci riuscì e fu trascinato nell’infermeria dagli addetti all’arena con la
testa che pendeva terribilmente dal braccio del primo. Il chirurgo stava ancora
operando un banderillero ferito dal toro precedente e siccome non
c’era emorragia fece aspettare Gitanillo. Poi si mise al lavoro sulle due
ferite che aveva ciascuna coscia e soprattutto sulla cornata che aveva rotto l’arteria
del gluteo e aveva scheggiato il sacro e perforato il bacino strappando il
nervo sciatico all’origine della sua inserzione.
Granadino
passò una prima volta sotto la muleta
sfiorando il petto di Sánchez Mejías e
la folla urlò mentre il torero rimaneva impassibile. L’animale si voltò e
caricò di nuovo e di nuovo col corno sfiorò il petto di Sánchez Mejías.
Stavolta però, con il quarto posteriore, Granadino lo investì e l’uomo cadde
dall’estribo e restò disteso in terra mentre l’animale
si voltava ancora. Antonio Garrigues che era in barrera assieme a José Bergamín, racconta che
Sánchez Mejías quel giorno era stanco e annoiato e tutto sembrava gli fosse
estraneo e anche il toro che sarebbe stato il toro della sua morte era come se
non esistesse, tanto che quando cadde a terra «Ignacio non fece nulla per
evitare la cornata. Nulla». Granadino incornò Sánchez Mejías nel muscolo della
coscia destra e portò il torero su di sé fino al centro dell’arena mentre Alfredo
Corrochano (figlio di Gregorio, il famoso critico), che toreava con lui,
correva a dare un quite al toro. Sánchez Mejías tenne le
braccia sulle corna mentre il toro lo portava con sé e rimase con gli occhi
aperti tutto il tempo. García Lorca avrebbe scritto: «Non si chiusero i suoi
occhi». Quando vide Corrochano, Sánchez Mejías disse: «Non da questa parte,
Alfredito, di qui
il toro non mi lascia, vai di là, di là». Finalmente in terra, fu raccolto dai
suoi subalterni che lo portarono nell’infermeria. Bergamín e Garrigues
accorsero. Il chirurgo era pronto a operare ma Sánchez Mejías chiese che fosse
chiamato il dottor Segovia, luminare di Madrid, chirurgo taurino per
eccellenza, e pregò di essere operato nella capitale. Secondo Garrigues
mantenne una serenità
stoica.
La
ferita era della grandezza di un pugno.
Mentre
la spada di Manolete affondava lentissima nell’hojo de aguias, il buco degli aghi, come gli spagnoli
chiamano la fenditura della grandezza di una moneta che è il
punto perfetto per l’uccisione, il corno destro di Islero
sollevò il torero affondando
nel triangolo di Scarpa, il muscolo
della coscia che s’inserisce
nell’inguine nascondendo il luogo dove
la vena femorale pompa vita. Sono celebri le immagini scattate
da Francisco Cano. Novillero costretto a abbandonare le arene dalla
guerra civile, Cano
era diventato fotografo e da quella sera sarebbe diventato il fotografo dei
tori per eccellenza. Scattò senza fermarsi. Si vede Manolete sollevato in aria,
poi lo si vede sgranato mentre viene quasi depositato in terra da Islero, poi è
disteso immobile mentre Luis Miguel Dominguín dà un quite al toro portandolo via, infine è
trasportato dai subalterni verso l’infermeria. Il suo volto, in genere fermo in
una posa ieratica, è distorto dal dolore, in un lamento in cui il torero
invincibile sembra tornare bambino.
Il
corno di Burlero lasciò José Cubero detto El Yiyo in piedi. Per un attimo,
nelle immagini televisive, sembra come un attaccapanni. Solo che il panno è il
cuore di Yiyo. Fece tre passi, il ragazzo, e già era bianco in volto. Burlero cadde
fulminato dalla spada. Il torero si afflosciò, venne raccolto da Pablo Saguar
detto El Pali suo banderillero, a cui disse «Questo toro mi ha
ucciso», poi la testa gli
scivolò nel vuoto mentre veniva trasportato all’infermeria.
- estratto dal capitolo terzo di Il toro non sbaglia mai, di Matteo Nucci, ed Ponte alle Grazie
(foto Ronda)
1 commento:
Luigi, sai quante copie ha venduto finora il libro? Sarebbe interessante conoscerlo per avere un dato in più sulla attenzione per la tauromachia in questo paese. Grazie e buone vacanze!
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