C'è un'immagine che di Ceret mi viene alla mente spesso, chissà perché proprio questa più di altre.
Un sabato sera di feria con la luna già al suo posto ma il sole ancora ostinato, a striare di un timido candore quel cielo che ormai vira deciso verso un blu romantico, per quanto un blu possa davvero essere romantico.
I monti bruni là in fondo, rassicuranti.
Nel cortile dell'arena ancora si attardano gruppetti di aficionados a disputarsi giri di birre al bancone e a discutere della corsa finita da un pò: alcuni hanno già preso la strada per il paese, il clamore della festa arriva fino a qua e ha il potere magnetico del canto di una sirena, i più giovani non hanno potuto resistere.
Intanto che tra una chiara e un pastis ci si accapiglia per stabilire se il terzo toro aveva più casta che vera bravura, intanto che gli amici lontani si abbracciano con gli occhi felici, intanto che qualche bambino sfugge al controllo della mamma e va a sbirciare ancora una volta quei sei cornuti neri e minacciosi che riposano nel cortile, intanto che tutto questo accade, dentro all'arena un centinaio di persone stanno sedute sui gradini, sparpagliate qua e là.
Coppie non più di primo pelo, giovani, uomini e donne sole.
In mezzo all'arena, a passarsi il microfono, il mayoral del giorno, il veterinario e un paio di aficionados stanno animando la tertulia della sera, quella sorta di tauroforum che avrebbe fatto gridare a un Nanni Moretti isterico "no, il dibattito no!", e che qui a Ceret assume la fisionimia di un sommesso rito laico, di un raccoglimento spirituale a cui ci si abbandona prima del sonno.
La gente sugli spalti ascolta con attenzione, qualcuno sbrana panini giganteschi, molti tengono in mano un bicchiere di birra, gli uomini fumano e qualche donna si sistema il maglioncino sulle spalle.
Il microfono sale sulle gradinate, arrivano le domande e gli interventi del pubblico: si respira un'aria di amore per il toro e di passione autentica, è tutto così familiare e intimo che pare di stare nella stalla, come un tempo, quando i nonni a tarda sera raccontavano favole ai nipoti per farli addormentare.
A intervalli regolari un personaggio allampanato e bizzarro, aggrappato alla ringhiera che chiude l'ultima fila di posti là in alto, grida "morillooooooo!". E' un mio amico.
Le bodegas sono in paese, un pò lontano, e il tunz tunz delle loro casse arriva come un delicato battito cardiaco: non disturba, anzi accompagna e ritma questa comunione.
In cielo ci sono le stelle.
Sì, spesso si impone questa immagine, sorge spontaneamente dai ricordi, e insieme ad essa un senso di serenità e di piacere.
Benchè, veramente, la tauromachia che Ceret difende sia tutto tranne che serenità e piacere.
I tori di Ceret sono sofferenza e sudore, angoscia e acciaio, brutalità e verità
E così mi accorgo che un anno è lungo, un anno è proprio un anno e non ci sono santi, e quanto si sente la mancanza di quell'atmosfera unica di vera aficion, di quegli animali mostruosi nei recinti, di quelle birre bevute all'ombra dell'arena,di quelle cene consumate al fresco della sera, di quel campeggio dove tante volte ho riso e altrettante volte mi sono ubriacato insieme agli amici, di tutto.
Un anno è lungo, senza, e pare non finire mai.
Poi arriva quel sabato, la cobla che stà là in alto attacca Els Segadors e tutto inizia di nuovo.
Non c'è niente come Ceret.
(foto Ronda)
venerdì 29 giugno 2012
Un anno
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