venerdì 31 agosto 2012

Diego Urdiales alla domenica

Giornata assai poco bilbaina, domenica scorsa.
Fin dal mattino il cielo si era colorato di un azzurro intenso e meridionale, poche e candide le nuvole a punteggiarlo, qui e là: si aggiunga una temperatura prima piacevole e poi decisamente calda nelle ore del mezzogiorno e, se non fosse stato per il balletto dei giganti e le intemperanze dei testoni, si sarebbe potuto pensare di stare ad una qualche feria del sud.
Domenica a Bilbao era la giornata dei Victorino Martin, posti in chiusura di un ciclo fino a quel momento assai povero di tori ed emozioni, e nei bar la sera prima si parlava di una settimana che di grande aveva solo due cose: la imprevista generosità del presidente Matias nel distribuire trofei e nel far sfiatare gli ottoni, e la insospettata pazienza di un pubblico un tempo più rigoroso ed esigente.

Bene, domenica insieme al sole a Bilbao è tornata anche l'emozione, quella che dal centro della pista si irradia sulle gradiante, quella che unisce migliaia di persone in una unica aritmia cardiaca, quella che fa trasalire e poi rinascere, quella che grida que vivan los toros!.

Non siamo stati certo al cospetto della corrida del secolo, questo no, ma i sei victorinos sono arrivati sulle sponde del Nervion con una qual certa casta nelle vene e imprevedibilità nelle intenzioni
Di presentazione non certo eccelsa, restii a piegarsi e chinare il collo fatta eccezione per un quinto (no hay malo) ordinato e stucchevolmente nobile, i tori della A coronata hanno comunque evidenziato qualità e personalità a diversi gradi. Quattro sono usciti sotto gli applausi, uno si è guadagnato l'ovazione dei presenti.
Giornata di poca fatica per i picadores, ché i tori di domenica avevano poco interesse per il cavallo e poca bravura nelle vene: e pensare che il sangue albaserrada, nella sua versione Escolar Gil, è capace di dare spettacolo autentico nel primo atto (cfr Ceret, of course). I tori, dopo un tercio de varas perlopiù anonimo, prendevano aria alle banderiglie e si presentavano rinfrancati e cocciuti nell'ultimo balletto, obbligando gli uomini a sudare per venire a capo delle loro complicazioni.

Javier Castaño ha avuto a che fare con un autentico farabutto, quel Conducido uscito in seconda posizione e che gli ha regalato un bel ricovero in ospedale: la ricezione alla capa era un naufragio, con il victorino che ad ogni passo spingeva sempre più il torero contro le assi, fino a disarmarlo e quasi inchiodarlo, letteralmente, al legno. Strumenti in mano, l'uomo doveva affrontare un avversario vigliacco e duro, sempre pronto a colpire con montanti spaventosi: muleta per aria, torero per aria, un corno infilato nei pantaloni e due costole rotte. Scosso e instabile, Castano trovava comunque la forza per portare il colpo di spada prima di salire sull'ambulanza.

Luis Bolivar ha prima patito la casta frenetica e isterica del terzo della giornata, al quale sono bastate poche galoppate per mandare l'uomo per farfalle: quattro assalti alla picca e una rabbia costante nell'ultimo atto, Esoterico rimane per noi il toro della giornata, fischi e sconfitta per il torero; così maltrattato, il colombiano deve aver tirato un bel sospiro di sollievo al vedere le buone maniere di Bostecito, uscito penultimo,  che ha permesso al suo torero di montare una faena gradevole benché di scarsa sostanza, incatenando passi armonici ma mai caricando sulla suerte, pur se con un'apprezzabile distanza offerta ad un toro che amava le cavalcate.

Un toro dunque per Castaño, due per Bolivar e tre per un Urdiales che si doveva evidentemente occupare anche dell'eredità dell'infortunato.
Ecco, Diego Urdiales è un torero. Un torero valoroso, sincero, pulito, vero.
Tanto Perera il giorno prima accompagnava superficialmente la corsa del toro, senza piegarlo, con il compasso delle gambe oscenamente aperto e rettilineo, tanto Urdiales domenica rimaneva verticale, in mezzo, cesellando i passi uno a uno, obbligando i suoi opponenti a torcersi, vincendoli.
Veder tirare dei passi uno alla volta, per costruirli giusti e profondi, per poi ricollocarsi e di nuovo servirne, uno per uno...che piacere, che sapore di toreria autentica e antica.
Diego Urdiales domenica ci ha insegnato che una faena, per essere bella, può anche essere di dominio schietto, può essere lenta e misurata e punitiva, può essere sincopata e sobria: e ci ha ricordato che il toreo puro attira dentro, e non spinge fuori, che il toreo puro non ha bisogno di barocchismi e frivolezze.
Tre tori per lui, neanche a farlo apposta tre lavori in crescendo, fino all'acme finale.
Il pomeriggio bilbaino era aperta da Dirigido, il cui carattere aspro e riservato lasciava al torero poche possibilità ed anzi gli regalava un brutto spavento quando il toro, a metà lavoro, gli si faceva addosso. Con pazienza e mestiere Urdiales riusciva a trovare i giusti argomenti per sottomettere un animale che nel corso della faena si scomponeva fino a diventare oltremodo intrattabile. Ovazione per lui.
Terminato l'agonia di Bolivar a metà spettacolo, il toril sputava fuori i 568 chili di Hechicero, che andava a mettere le corna nella capa autoritaria ed elegante di Urdiales. Arrivato appesantito all'ultima giostra, il toro seguiva soprattutto a destra la muleta e gli inviti, Urdiales avendo trovato con mestiere il terreno giusto. Le spirali sempre più strette, Hechicero assestava all'uomo una voltereta spaventosa che lasciava con il fiato sospeso per alcuni interminabili secondi tutta l'arena.Un'intera efficace, applausi al toro, una vuelta applauditissima.
La feria del nord era chiusa da Pachuqueño, non certo indimenticabile sotto il ferro del picador.
Con lui Urdiales instrumentava una faena d'altri tempi, fatta di passi ricamati e limpidi benché maschi e dominatori, un circo che di artistico aveva poco se non la ricerca del bello, ammirevole, con cui Urdiales ingentiliva alcuni passaggi a sinistra, ma che era essenzialmente vero ed efficace. Proprio a sinistra, con la muleta tenuta in punta di polpastrello e la figura verticale, arrivavano i momenti migliori della giornata.
Alla suerte suprema, Urdiales metteva a disposizione di Pachuqueño la propria vita, entrando dritto e rischiando tutto. Un'orecchia di peso.

Al termine di tutto questo, mentre qualcuno sui gradini scandiva torero-torero, mentre l'alguacil a passi lenti si avvicinava, Diego Urdiales, in mezzo all'arena, piangeva compostamente.


(foto Ronda - Bilbao)


martedì 28 agosto 2012

Il sabato della farinata

La farinata, come ci dice Wikipedia, "è una torta salata molto bassa, preparata con farina di ceci, acqua, sale e olio di extravergine di oliva. Si cuoce in forno a legna, in teglia, e assume con la cottura un vivace colore dorato."
Regina della cucina povera ligure, benché con alcune varianti sia presente nella tradizione culinaria di molte regioni del mediterraneo, la farinata va gustata calda appena uscita dalla fornace, con un buon bicchiere di vino bianco fresco e leggero. Per inciso, la farinata è una cosa buonissima: calda, croccante, profumata.

Ora, succede che il io abbia avuto la fortuna di potere eleggere come mio buen retiro un paesino dell'appennino ligure-emiliano, un villaggetto sperduto e arroccato sui monti dove fin dalla più tenera età ho potuto frequentare sentieri e pascoli, vacche e cavalli, paesani e cacciatori, e dove il silenzio e i ritmi di vita rigenerano e ritemprano spirito e membra.
Da questo paesino, di cui ometterò il nome per preservarne il prezioso isolamento e per evitare che orde di turisti milanesi vengano a depravarlo alla ricerca di una qualche posticcia esperienza di vita rurale, agli inizi del secolo scorso furono in tanti a emigrare per cercare fortuna e vita altrove: per ragioni geografiche Genova e in generale la costa ligure costituirono il primo approdo per questi giovani uomini e giovani donne che, scesi dalle montagne e con qualche straccio in una valigia di fortuna, andarono a installarsi lì sulle rive del mare. Nel capoluogo ligure parecchi di questi migrantes nostrani trovarono occupazione in forni e cucine, e pian piano svilupparono grandi conoscenze e abilità, tanto che in breve numerosi tra loro arrivarono ad aprire attività commerciali: non sono pochi i forni e le panetterie che, nel secolo scorso, vantavano proprietà appenniniche, luoghi di artigianato e fatica dove si impastavano e cuocevano e servivano focacce e pasta fresca e soprattutto da dove ogni giorno incalcolabili quantità di farinata uscivano in cartocci che presto venivamo aperti e subito svuotati.
Tornati nella terra natìa, ça va sans dire, le abitudini non si persero: non esiste dimora di emigrati, in paese, che non abbia il suo bel forno a legna, esibito con orgoglio a ricordare i sacrifici e i successi di gioventù.
Proprio davanti a casa, che lo vedano tutti, e con la bocca larga, per carità: che le teglie per la sacra torta hanno diametri ben più lunghi del comune.
Tutto questo per dire che ogni anno, là sui miei monti, si organizza a fine estate la serata della farinata: è il momento culmine del nostro agosto, quello in cui tutto il paese si attiva, i vecchi si tengono vicino i ragazzi di oggi e tramandano i segreti del buon impasto e della perfetta cottura, le giovani villeggianti si mischiano alle donne del paese per preparare le tavole e coordinare il servizio, e tutti a inizio sera ci si ritrova nella microscopica piazzetta, ci si sistema dove capita e vicino a chi capita e si aspetta che da qualche parte in paese un forno abbia cotto la prima farinata. E' una serata intima, alla quale si dà poca pubblicità giù per la valle, che si debba poter parlare con calma e con tutti, e che si possa applaudire tutti insieme il giro d'onore che i cuochi, inevitabilmente, faranno tra i tavoli a notte ormai giunta.
Dunque dopo settimane di lunga e elettrica attesa, fatta di preparativi frenetici e molta eccitazione, sabato 25 agosto, tre giorni fa, il vilaggio era pronto.
Alla sera, la grande festa della farinata.

Ecco, arriviamo al punto.
Per qualche incomprensibile ragione il sottoscritto, esattamente sabato scorso, ha lasciato di primo mattino il suo paesello  - quando l'aria era ancora fresca ma il sole giallo e caldo e dove in tanti già stavano raccogliendo la legna per i forni - per scendere fino nell'afa cittadina, raccogliere qualche cosa da mettere nello zaino, sciropparsi un'ora e rotti di asfalto incandescente, salire su un aereo pieno di giovinastri molesti e eccitati, e arrivare infine nell'umidità di Bilbao, accolto da un cielo grigio, gonfio e minaccioso.
Questo capolavoro strategico ha avuto il suo culmine nelle due ore e mezza di noia assoluta che il vostro eroe ha patito sui gradini di Vistalegre, dove sei Alcurrucen inutili e vuoti e brutti hanno incontrato tre uomini svogliati e distratti. Ponce nella versione soporifera, Perera insopportabilmente periferico e superficiale, Fandiño demoralizzato e trasparente.
Nel momento in cui uscivo dall'arena, sconsolato e depresso, pensavo che a quell'ora, a 1315 km di distanza, stavano succedendo un sacco di cose molto migliori: il primo giro di farinata era ormai esaurito e la gente felice ne chiedeva ancora, i fornai si davano da fare e sudavano e ridevano, le ragazze in grembiule servivano nuove teglie sui tavoli, il cielo nero brillava di stelle bianche e luminose, le caraffe di vino passavano di mano in mano e il giovanotto alla fisarmonica stava attaccando le prime note della Cesarina.

Fottuta aficion.


(foto Ronda - Bilbao)


venerdì 10 agosto 2012

Alle cinque della tarde


In vista della tradizionale e benedetta pausa agostana che congelerà per qualche tempo anche le attività del blog,  Alle cinque della sera si allinea alla tradizione dei migliori periodici, offrendo ai suoi lettori una lettura per l'estate.
Il testo che trovate qua sotto è un estratto da Il toro non sbaglia mai, precisamente da quel capitolo 3 che ha scombussolato i sentimenti di chi l'ha letto: è vero, non è certo con obiettività che abbiamo affrontato quelle pagine, ma qua siamo di fronte ad un pezzo di bravura davvero raro.
Ora, è del tutto probabile che chi frequenta questo blog abbia già divorato il libro di Matteo Nucci, ma tant'è: un ripassino sotto l'ombrellone non fa certo male, e chi sa che invece non possiamo conquistare nuovi appassionati alla letteratura taurina e, certo, ai tori.

Buona lettura.


ps: sì, è solo un estratto ed è un peccato troncarlo così; vorrà dire che chi apprezzerà queste righe non potrà far altro che andarsi a comprare il libro, per leggere tutto.


ALLE CINQUE DELLA TARDE


La mattina del 16 maggio 1920 a Talavera de la Reina l’aria era mite, il sole ancora obliquo e i giardini del Prado profumavano di gelsomino.
Nelle stalle della plaza de toros La Caprichosa, Bailador sembrava il più piccolo fra i tori. Era accucciato in un angolo e sonnecchiava, mentre Blanquete, il fido banderillero di Joselito, attraversava il giardino per assistere al sorteggio dei tori. Il suo maestro dormiva ancora. Dicono che non sognò nulla, quella notte, Joselito.
La mattina del 31 maggio 1931, come spesso capita a Madrid, un’aria fredda scese sulla città dalla Sierra de Guadarrama. Attorno alla plaza della Carretera de Aragón uomini e donne passeggiavano coperti da pesanti cappotti e ignoravano i movimenti attorno all’arena. I subalterni dei tre toreri del giorno arrivarono puntuali al sorteggio. Gridarono le frasi di rito mentre si stabilivano le coppie di animali, poi andarono a vedere i rispettivi tori nelle stalle. «Stavolta sì che ci sono tori per fare una bella corrida» disse il peón di Gitanillo de Triana, guardando Fandanguero.
Era un animale bello, elegante, di evidente trapío, e sembrava dominare su tutti gli altri con calma e nobiltà. La mattina dell’11 agosto 1934, Manzanares affondava in una pozza di sole. Le terre bruciate di Castiglia sembravano lande desertiche. Due bambini succhiavano limonate fredde mentre il padre si voltava sorpreso verso l’ingresso della plaza de toros.
Mormorò qualcosa e i bambini lo guardarono. «Che dici, papà?».
«Nulla, nulla» rispose l’uomo. «Quello che è entrato ora è un uomo famoso. Lo conoscerete, un giorno. Si chiama Ignacio Sánchez Mejías. È un artista, uno scrittore, un torero. Chissà perché è venuto di persona al sorteggio. Non vengono mai, i toreri, al sorteggio». E infatti era annoiato dall’incombenza, il torero intellettuale. E non diede che un’occhiata veloce ai suoi tori e lesse di sfuggita i nomi e non si ricordò affatto, più tardi, che uno dei due si chiamava Granadino.

La mattina del 28 agosto 1947 il caldo a Linares era soffocante.
Sulle finestre delle case andaluse erano srotolate tende di canapa spessa e per le vie della città non si sentiva che il cigolio di carretti che si spostavano lentamente. Ormai considerato invincibile, Manolete riposava. Aveva viaggiato di notte da Madrid sulla sua Buick blu attraversando paesini polverosi dove chi abita sulla strada principale, al sentire lo stridore dei freni, accosta un occhio alla persiana e riconosce l’automobile del più grande matador di Spagna. Adesso, dentro la plaza de toros di Santa Margarita, Cantimplas il suo fido subalterno disse qualcosa all’orecchio del collega che lavorava per un altro matador. Quello fece segno di sì con la testa mentre Cantimplas indicava il toro e se ne
segnava il nome: Islero.

La mattina del 30 agosto 1985 a Colmenar Viejo l’umidità aveva schiuso odori che preannunciavano settembre. Dal belvedere della città una coppia di amanti si stringeva la mano prima di salutarsi
e intanto, attorno alla plaza de toros già tutto era in movimento.
Nelle stalle un toro di nome Burlero si era liberato dei compagni dimostrando ancora una volta chi fosse a dominare là in mezzo. Gli altri animali si erano ritratti immediatamente. La giovane promessa
di Spagna, invece, El Yiyo, dormiva ancora nella stanza 103 dell’hotel Palmi a Miraflores, poco lontano da Colmenar. Era andato a letto tardi, lo avevano raggiunto le guardie civili mentre guidava fra
Cahorra e Madrid assieme a Tomás Redondo, il suo impresario, per
avvertirlo che l’indomani avrebbe toreato a Colmenar Viejo. Doveva riposare, adesso. Un buon torero deve saper riposare.

***
La plaza ha ancora le stesse dimensioni a Talavera de la Reina e la cupola della basilica Nuestra Señora del Prado svetta molto al di sopra delle sue mura e al di sopra anche di tutti gli alberi del parco. La chiamano «la cappella Sistina della ceramica». È decorata dentro e fuori da azulejos che raccontano scene del Vecchio Testamento. Alcune mattonelle sono attribuite a apprendisti di El Greco. Sul lato posteriore della basilica, si apre l’ingresso alla plaza de toros La Caprichosa. È una plaza bella e antica ma da dentro non si può resistere alla tentazione di guardare altrove, ossia in alto, dove la cupola della Basilica rompe il cielo. Soltanto gli spettatori seduti nelle tribune del tendido 3 e parte di quelli confinanti non possono vederla. Anche dall’arena, i toreri che lavorano accanto al tendido 3, se si distraessero a guardare il cielo, non la vedrebbero.
Non la vide Joselito, il 16 maggio 1920 quando fu scaraventato verso l’alto, l’ultimo volo dell’angelo sivigliano che Bergamín avrebbe definito «un Lucifero adolescente».

La plaza – dicono – è stata la più bella che mai abbia avuto Madrid. Dal grande piazzale Salvador Dalí oggi si fatica a immaginare. I palazzi intorno sono paradigmatici di una certa modernità tipica della capitale. Uffici che il venerdì si svuotano, vetrate pulite e scintillanti, asettiche stanze illuminate da piccole lampadine che sembrano correre lungo carrelli metallici su soffitti bianchi. E lì davanti, il Palazzo dello Sport. Fino al 1934, al posto della struttura avveniristica c’era la plaza della Carretera de Aragón e fu inaugurata da Lagartijo e Frascuelo, i due rivali di fine Ottocento.
Famosi furono i duelli di Joselito e Belmonte nella cosiddetta età dell’oro della tauromachia. Seguirono poi tutte le grandi sfide di quella che fu ribattezzata «età d’argento», fino quasi alla guerra civile. Difficile oggi immaginare dove si trovasse precisamente nell’arena Gitanillo de Triana, lo zingaro dotato di un coraggioche metteva paura alla paura stessa, il 31 maggio del 1931.

La plaza è bianca. È una piccola città, Manzanares ma la sua plaza de toros è un monumento di bellezza che nessuno si sognerebbe di contestare. Inaugurata nel 1900, sulla facciata che nel sole sembra panna si aprono tre finestre in forma d’arco coperte da grate di ferro battuto, mentre tutto intorno il muro è coperto da tegole.
Ogni cosa è insomma perfettamente in stile con le distese immense tipiche della Castiglia-La Mancha, le terre di don Chisciotte. Ma non pensava a Cervantes, Ignacio Sánchez Mejías l’11 agosto 1934. Era un intellettuale, sì, era stato il mecenate della generazione del ’27, quella di García Lorca e Bergamín, eppoi era stato già tutto: aviatore, pilota automobilistico, presidente della Croce Rossa e del Betis Sevilla, attore di cinema, romanziere, drammaturgo. Ma quando entrò nella plaza quel giorno non pensava a Cervantes, perché Sánchez Mejías era soprattutto torero.

La plaza di Linares è immutata. Salendo calle de Argüelles, dietro la cancellata di ferro battuto che accompagna la strada a sinistra, il parco di aranci e palme sembra nascondere un mistero, ma è difficile resistere alla tentazione di tirar dritto verso la plaza de toros di Santa Margarita, nei suoi colori rosso, ocra e bianco tipici delle arene andaluse. Sul muro bianco quasi accecante, un muro così caldo che pare ci si possa infilare un dito dentro, s’intravede, fin da Calle de Julio Burell, una placca che ripropone il disegno famoso, il disegno del cartel più noto di tutta la storia della corrida. C’è un uomo in posa statuaria che solleva la muleta rossa in un passo per cui era famoso, l’ayudado por alto, un estatuario, il passo esemplare del cosiddetto toreo verticale, il modo di toreare immobile, ieratico, austero e tirato, sempre rigorosamente longilineo, dritto – verticale appunto.
Avvicinandosi alle pareti di questa bellissima plaza costruita nel 1866, tra la porta 1 e la prima biglietteria, il disegno di Manolete che si fa passare il toro a pochi centimetri dal ventre non è corredato dalla scritta che si può vedere in mille bar di Spagna con i nomi dei toreri e della ganadería. C’è scritto solamente: PLAZA DE TOROS DE LINARES. JUEVES 28 AUGUSTO DE 1947, FERIA Y FIESTA DE SAN AGUSTÍN.
Più in basso, in bronzo, c’è l’inconfondibile profilo ossuto e parole di memoria. «La statua» dice un vecchio passando «è nel parco».

La plaza di Colmenar Viejo si vede fin dall’orizzonte. Dalla Carretera de Burgos, la strada che esce da Madrid in direzione nord, la cittadina di Colmenar scivola sul fianco sinistro e le estremità più alte sembrano listate a lutto. Avvicinandosi, sulla strada che abbandona la carretera, una striscia rossa prende il sopravvento sul nero, prima che i tetti delle case, in prospettiva, la oscurino definitivamente. Da quelle parti c’è un parco dove s’incontrano gli innamorati a guardare la valle che si apre in un’ampiezza che a volte pare infinita, e la strada che sale verso il parco e la plaza de toros, con i suoi bordi più alti rossi e neri, attraversa una rotonda in cui un giovane torero saluta alzando la muleta nella destra. Non era nato qui, El Yiyo, ma è come se fosse l’eroe di tutti, ormai.
Non si può pensare altrimenti, avvicinandosi alla plaza moderna, restaurata nel 1990, ben cinque anni dopo il 30 agosto 1985, quando in Spagna morì l’ultimo matador de toros. Aveva soltanto 21 anni e la sua carriera sembrava destinata verso chissà quali trionfi. La televisione lo ritrae nell’arena in una delle sue più belle faenas. Le immagini di Colmenar Viejo sono solo un po’ sgranate a recuperarle oggi su internet, ma si segue ogni cosa e nulla è affidato all’immaginazione.

***
Dicono che Bailador fosse un toro privo di casta. Certo, l’allevamento da cui proveniva era ben poco conosciuto. Oggi, chiunque senta nominare la Viuda de Ortega sa di cosa si parli. Gli eredi di quell’allevamento ormai scomparso si possono ammirare a pochi chilometri da Talavera de la Reina, nella ganadería El Batán, tra due paesini che sono grumi di piccole case: Castillo de Bayuela e El Real de San Vicente. Aveva cinque anni, Bailador. Era piccolo e di corna piccole e suo padre, Canastillo, era del temibile encaste Santa Coloma, mentre la madre, Bailadora, era stata comprata dall’allevamento del Duque de Veragua. Tra le tante qualità mitiche attribuite a Joselito c’è una conoscenza totalizzante di ogni toro semental di Spagna e ogni vacca da riproduzione, tanto da riconoscerne i figli che si trovava a sfidare. Impossibile, ovvio. Anche se è certo che Joselito conoscesse molto bene i tori di ogni allevamento. Tuttavia è attestato che la ganadería della Viuda de Ortega l’aveva a malapena sentita nominare. Di questo torello che entrò trottando nell’arena di Talavera dicono che non avesse casta, che fosse un toro manso, riluttante al combattimento. Sicuramente vedeva male. Aveva una pessima vista ma Joselito decise di non tenerne conto.

L’allevamento di Fandanguero aveva storia breve, Nel 1920, Graciliano Pérez Tabernero comprò un lotto di 130 vacche dal Conte di Santa Coloma assieme a due tori scelti in una tienta per farsi stalloni. Il migliore fra i sementales si chiamava Mesonero, visse diciotto anni e diede vita a almeno 1150 figli, tra vacche e tori. Uno di questi si chiamava Fandanguero e, quando, nel maggio del 1931, fu preparato per un lotto da spedire a Madrid, si pensò subito a suo fratello Ligero che nel 1925 era stato premiato con un giro d’onore, premio che si riserva agli animali speciali cui però non si accorda l’indulto. Dal modo in cui Fandanguero, 474 chili, entrò in pista nella plaza della Carretera de Aragón, sembrò subito un toro nobile e bravo e Gitanillo de Triana gli andò incontro certo di riuscire a tirarne fuori il mistero, certo di poter lavorare l’animale fino a capirlo e fino a farsi capire da lui. I minuti corsero via veloci e quando il mozzo di spada gli si avvicinò per servirgli l’arma con cui uccidere disse al torero: «Sta’ attento. Tira un po’ verso dentro». «Tirasse un po’ dove vuole» gli rispose Gitanillo de Triana. «La vedrà lui. Ormai so bene come trattarlo».

Granadino apparteneva all’allevamento di don Demetrio e don Ricardo Ayala. Era un toro piccolo, manso e astifino, aveva cioè corna molto appuntite. Procurò qualche difficoltà nelle due fasi iniziali della corrida ma Ignacio Sánchez Mejías ostentò disinteresse e si andò a sedere sull’estribo per cominciare la faena. Su quella listarella di legno che percorre tutta la palizzata e consente a chi voglia saltare nel callejón un punto d’appoggio sicuro, sull’estribo aveva l’abitudine di sedersi, Sánchez Mejías, il grande intellettuale-torero, per sfidare il toro e il pubblico. Non erano affatto le «cinco en punto de la tarde» come avrebbe scritto García Lorca.

Cinque anni, allevamento Miura, 495 chili, nero, Islero parve subito un toro mediocre, che perdipiù non vedeva bene e tendeva a usare il corno destro. Di fronte alla cappa che Manolete gli aprì sul muso, Islero attaccò eppoi rallentò, refrattario alla sua natura di combattente. Diede difficoltà anche ai due banderilleros, Cantimplas e Gabriel González, e quando venne l’ora della faena, Camará, impresario di Manolete, sussurrò al suo torero di fare un lavoro veloce. Manolete non volle ascoltarlo. Toreò come in trance, pur di dimostrare a tutti di essere ancora e sempre il numero uno. Muletazos, manoletinas, addirittura passi dati in ginocchio, cosa assolutamente unica per il torero di Cordoba.
Due volte rifiutò la spada che Carnicerito de Málaga, suo mozzo, cercava di offrirgli su suggerimento di Camará per farla finita al più presto con una stoccata rapida. Manolete ignorò qualsiasi
consiglio. Voleva uccidere lentamente. Una di quelle stoccate magistrali per cui sarebbe rimasto eterno. Una di quelle stoccate tanto lente che sembrava di vedere la spada scivolare centimetro per centimetro tra le scapole dell’animale. Erano le sei e quarantadue minuti.

Burlero è un nome pericoloso. Nessuno si burla di nulla durante una corrida. Neppure gli uomini nascosti dietro il burladero dovrebbero perché la burla umana nella corrida è in realtà piena
di rispetto. E infatti, uscì nobile e bravo il sesto toro della sera a Colmenar Viejo. Era nero berrendo, ossia macchie nere su fondo chiaro, apparteneva all’allevamento di Marcos Núñez e fu ammirato
in tutti e tre i terzi della corrida. El Yiyo era riuscito a tirar fuori il meglio dell’animale e, quando lo uccise, la stoccata fu precisa. Morendo, Burlero diede ancora due cornate. Con una fece cadere El Yiyo, con l’altra lo sollevò da terra, da dietro, per l’ultima volta.

***

Gregorio Corrochano fu critico taurino tra i più importanti del Novecento. In quel giorno del 1920, a Talavera de la Reina, si riconciliava con Joselito dopo un periodo di incomprensioni.
Quando cominciò la faena disse al torero di fare attenzione. Secondo Corrochano il toro vedeva male da vicino. Ma Joselito non tenne in conto l’avvertimento. Pare che Blanquet il suo peón de confianza non ebbe il tempo di dare altri consigli perché il toro aveva stabilito come proprio terreno elettivo lo spazio accanto a un cavallo appena morto e Blanquet non riusciva a portarlo lontano da lì.
Joselito entrò nella querencia, nella residenza, del toro. Agitò la muleta e il toro si avventò. Ma l’uomo era troppo vicino. Bailador non vide l’inganno, non vide la muleta, diede una cornata alla coscia del giovane torero e lo sollevò in aria, poi mentre l’angelo ricadeva lo prese con l’altro corno perforandogli il ventre e l’intestino. Sánchez Mejías, che toreava quel giorno in un mano a mano con Joselito, suo cognato, entrò in pista distraendo con un quite perfetto Bailador, una di quelle mosse con cui il torero si fa incontro al toro per tirarlo via dall’obiettivo su cui sta scatenando la sua carica. I subalterni intanto raccolsero il corpo del torero e lo portarono correndo verso l’infermeria della plaza: «Mi ha fatto
uscire gli intestini» disse Joselito a Blanquet, poi svenne.

Dando un passo di muleta a Fandanguero, Gitanillo de Triana si trovò in aria a gambe divaricate. Il corno sinistro del toro nella coscia lo fece girare eppoi lo sbatté contro la barriera. Lo stesso corno lo raccolse di nuovo nell’altra coscia e di nuovo lo sbatté contro la barriera. Marcial Lalanda che toreava quel giorno assieme a Gitanillo e Chicuelo, diede un quite al toro ma l’animale ignorò il panno e trafisse la schiena di Gitanillo. Allora Lalanda sferrò una ginocchiata contro il muso di Fandanguero e lo portò lontano da Gitanillo che provò a alzarsi ma non ci riuscì e fu trascinato nell’infermeria dagli addetti all’arena con la testa che pendeva terribilmente dal braccio del primo. Il chirurgo stava ancora operando un banderillero ferito dal toro precedente e siccome non c’era emorragia fece aspettare Gitanillo. Poi si mise al lavoro sulle due ferite che aveva ciascuna coscia e soprattutto sulla cornata che aveva rotto l’arteria del gluteo e aveva scheggiato il sacro e perforato il bacino strappando il nervo sciatico all’origine della sua inserzione.

Granadino passò una prima volta sotto la muleta sfiorando il petto di Sánchez Mejías e la folla urlò mentre il torero rimaneva impassibile. L’animale si voltò e caricò di nuovo e di nuovo col corno sfiorò il petto di Sánchez Mejías. Stavolta però, con il quarto posteriore, Granadino lo investì e l’uomo cadde dall’estribo e restò disteso in terra mentre l’animale si voltava ancora. Antonio Garrigues che era in barrera assieme a José Bergamín, racconta che Sánchez Mejías quel giorno era stanco e annoiato e tutto sembrava gli fosse estraneo e anche il toro che sarebbe stato il toro della sua morte era come se non esistesse, tanto che quando cadde a terra «Ignacio non fece nulla per evitare la cornata. Nulla». Granadino incornò Sánchez Mejías nel muscolo della coscia destra e portò il torero su di sé fino al centro dell’arena mentre Alfredo Corrochano (figlio di Gregorio, il famoso critico), che toreava con lui, correva a dare un quite al toro. Sánchez Mejías tenne le braccia sulle corna mentre il toro lo portava con sé e rimase con gli occhi aperti tutto il tempo. García Lorca avrebbe scritto: «Non si chiusero i suoi occhi». Quando vide Corrochano, Sánchez Mejías disse: «Non da questa parte, Alfredito, di qui il toro non mi lascia, vai di là, di là». Finalmente in terra, fu raccolto dai suoi subalterni che lo portarono nell’infermeria. Bergamín e Garrigues accorsero. Il chirurgo era pronto a operare ma Sánchez Mejías chiese che fosse chiamato il dottor Segovia, luminare di Madrid, chirurgo taurino per eccellenza, e pregò di essere operato nella capitale. Secondo Garrigues mantenne una serenità stoica.

La ferita era della grandezza di un pugno.
Mentre la spada di Manolete affondava lentissima nell’hojo de aguias, il buco degli aghi, come gli spagnoli chiamano la fenditura della grandezza di una moneta che è il punto perfetto per l’uccisione, il corno destro di Islero sollevò il torero affondando nel triangolo di Scarpa, il muscolo della coscia che s’inserisce nell’inguine nascondendo il luogo dove la vena femorale pompa vita. Sono celebri le immagini scattate da Francisco Cano. Novillero costretto a abbandonare le arene dalla guerra civile, Cano era diventato fotografo e da quella sera sarebbe diventato il fotografo dei tori per eccellenza. Scattò senza fermarsi. Si vede Manolete sollevato in aria, poi lo si vede sgranato mentre viene quasi depositato in terra da Islero, poi è disteso immobile mentre Luis Miguel Dominguín dà un quite al toro portandolo via, infine è trasportato dai subalterni verso l’infermeria. Il suo volto, in genere fermo in una posa ieratica, è distorto dal dolore, in un lamento in cui il torero invincibile sembra tornare bambino.

Il corno di Burlero lasciò José Cubero detto El Yiyo in piedi. Per un attimo, nelle immagini televisive, sembra come un attaccapanni. Solo che il panno è il cuore di Yiyo. Fece tre passi, il ragazzo, e già era bianco in volto. Burlero cadde fulminato dalla spada. Il torero si afflosciò, venne raccolto da Pablo Saguar detto El Pali suo banderillero, a cui disse «Questo toro mi ha ucciso», poi la testa gli scivolò nel vuoto mentre veniva trasportato all’infermeria.



(foto Ronda)

mercoledì 8 agosto 2012

Catalunian pride

L'orgoglio (aficionado) catalano invece della tradizionale sfilata sembra aver definitivamente chiuso con l'organizzazione della corrida settembrina a Ceret.
Tori di Prieto de la Cal per Marc Serrano, Javier Castaño e Mehdi Savalli.
Arrivano notizie di una prevalenza jabonera tra i cornuti, di prezzi popolari per l'ingresso e del rifiuto di Castaño ad aprire il cartel.

Stiamo a vedere se questa volta il tutto sarà confermato.

lunedì 6 agosto 2012

Ti sia lieve la terra

Chavela Vargas non c'è più, non c'è più la sua voce sporca di sigaro e passione, Chavela con la pistola, Chavela la lesbica, Chavela miss tequila, Chavela e Frida, Chavela la voce del mondo.
Chavela Vargas non c'è più, è una cosa da piangere, sul serio.

Vamonos alejados del mundo
donde no haya justicia
ni leyes ni nada
nomás nuestro amor







venerdì 3 agosto 2012

Scheletri nell'armadio

Il compagno Angelo era uno di quei compagni che si prendevano le ferie per montare la festa de l'Unità, poi per friggere salamelle e pesce alla sera, e poi per smontare gli stand.
Uno di quei tanti compagni che, nessuno di loro essendo il nuovo Berlinguer, hanno in ogni caso fatto grande il partito. Un esempio di militanza incondizionata.
Con un'operazione strategica e visionaria, facemmo eleggere il compagno Angelo nel consiglio di circoscrizione, qui nella mia città: la base finalmente protagonista nelle stanze del potere.
Una sera, durante una seduta dell'assemblea, l'apoteosi.
Nel mezzo di una discussione ordinaria come tante, forse l'esame di qualche pratica urbanistica che prima deve passare in quartiere, o chissà cos'altro, il compagno Angelo prese la parola.
Aspettò qualche secondo prima di parlare, si fece rosso in volto, e dopo aver vibrato un energico pugno contro il tavolo, tuonò rivolgendosi ai banchi dei suoi: "Compagni!!!"
Qualche attimo di sconcerto e teatralmente il compagno Angelo proseguì, il silenzio conquistato, sempre rivolto al suo gruppo.
"Compagni! Perché, anche noi non abbiamo i nostri scheletri nell'armadio?"
Si fece severo in volto, e poi la rivelazione con la voce strozzata e insieme gridando, rigorosamente in dialetto per dare maggiore enfasi.
"Pasolini...a l'era mia culaton?!?!?!?!?" *.

Tutto vero.
Non ricordo, da allora, una sera, una sola sera in cui, con gli amici, che si sia a mangiare, o a vedere una partita, o a un matrimonio o a un funerale...qualcuno a un certo punto non salti su, nel mezzo di qualsiasi discussione o di qualsiasi silenzio, gridando: "Compagni! Pasolini a l'era mia culaton?!?!?!?"

Ecco, a proposito di scheletri nell'armadio: ne abbiamo anche noi, inutile negarcelo.
Questo qua sotto fa più danno che guadagno.
A modo suo un genio, ma fermatelo per carità.






* trad: Pasolini, non era mica culattone?

giovedì 2 agosto 2012

Provocazione inaccettabile

Ronda porcoddio non sai cos'è Huelva y su Plaza de Toros. Impazziresti. Io ho i brividi costanti e lacrime agli occhi e non riesco a smettere di bere e mangiar gamberetti. Pietro anche quasi accetta il sud del mondo. Perché qui c'è quella perfetta mezcla di popolare e conservatore. Camicie rosa e basette e vecchi veri e nessuna ricchezza ma sana antichità di costumi, puzza di alici fritte e magliette della roja e insomma dovresti esser qui.

Sì, quei due là sono a Huelva.
Sì, questo è uno degli sms che mi sono arrivati oggi.
Sì, considerando che qua ci sono 40 gradi e si lavora senza aria condizionata, questa è una provocazione inaccettabile.





(foto: Penthouse)