martedì 30 novembre 2010

Io sono voi, e voi non siete un cazzo


"Mi sta sui coglioni perché la sua protesta sbracata, approssimativa, è roba per sempliciotti, non va da nessuna parte anche se porterà l'artefice o qualche testa di paglia nelle tanto odiate istituzioni, dove si fa sul serio. Ha accusato il defunto Marco Biagi di aver creato con la sua legge il precariato: quando il senatore del Pd Pietro Ichino l'ha sfidato a un confronto pubblico non ha neanche risposto.
Ha dato dello speculatore a Veronesi, definito "cancronesi", è disinformante sul nucleare, le sue proteste sono considerate di Sinistra ma sono in realtà peroniste, le sue proposte sono oniriche".
Maledice la cancrena dei partiti e intasca i rimborsi elettorali (salvo risputarli una volta sgamato).
I grillini sono i mitomani, i frustrati, i desiderati degli anni Settanta, i senz'arte né parte che si rivesciano in piazza sperando di colmare la loro spaventosa solitudine mentre sfogano sul dittatore di turno l'odio verso sé stessi e i propri fallimenti".

Così scrive Massimo del Papa, fra le più caustiche e immediate firme del giornalismo italiano, in un fondo dal titolo "Perché non ci piace Grillo", pubblicato sul Mucchio 676 di questo mese.
Precisiamo subito che l'autore di questo blog si riconosce pienamente tanto nell'analisi del fenomeno grillismo contenuta in quell'articolo (che si dilunga ben oltre la riproposizione qui sopra), quanto nel sentimento di insofferenza per l'approccio immacolato e censore a prescindere e per gli slogan populisti, e in generale per il personaggio a capo del movimento.
Il Vaffa-day è stato uno dei momenti più bassi della nostra storia più recente, una manifestazione la cui piattaforma politica (il vaffanculo) è roba per gli inquilini del Grande Fratello.

Ma certo questo non è il luogo per abbandonarsi ad analisi e critiche nel merito politico.

Solo che la lettura (masochista, lo ammetto) del noto e messianico blog, quello in cui la verità è rivelata, ha regalato uno spunto che può interessare i lettori di queste pagine.

"Dalla parte del toro Quesero" è il titolo del post nel quale si commenta la vicenda di Tafalla, dove in agosto un toro saltò sugli spalti.
Che viene commentata così: "Mi spiace per i bambini feriti, non per i genitori che li educano all’assassinio di un animale per puro divertimento."
Seguono, ad oggi, 179 commenti in cui gli adepti del Grillo-pensiero sviluppano il Grillo-pensiero (il Movimento è orizzontale, si sa): tori, corride, animali, torture, olé per Quesero, l'uomo è il cancro della terra, famiglie dalla parte del toro, eccetera eccetera.
Con qualche perla, questa per esempio: "vorrei ricordare anche gli amici pesci: sarebbe bello che anche loro riuscissero a saltare fuori dal cestino in cui vengono posti ad agonizzare per ore o giorni e azzannassero qualche pescatore, un sogno. ricordiamoci che tutti gli animal soffrono."

Magari uno dei commenti l'ha scritto la Brambilla, chi lo sa.

Insomma Grillo ha ben chiaro da che parte stare.
Tra l'uomo e gli animali sempre dalla parte di quest'ultimi, dice un suo discepolo.
Avanti così, che andiamo bene.



post scriptum: il titolo di questo post è una citazione da quel Marchese del Grillo che ha in comune, con l'ineffabile moralista in questione, non solo il nome ma anche tutto il profilo spocchioso e reazionario. Sia anche, per quel poco che vale, un tributo a quel grande uomo che stava dietro la macchina da presa durante le riprese del film: si è gettato dalla finestra, per sfuggire alla morte.

domenica 28 novembre 2010

La luce pallida della luna




Non fosse altro per la straordinaria aneddotica che custodisce e continua ad alimentare, la tauromachia andrebbe ascritta sul serio a patrimonio dell'umanità.
Storie assolutamente vere e tanto incredibili alle quali solo forse gli aficionados sanno che è del tutto logico credere, nemmeno più tanto se ne stupiscono, loro che conoscono la magia unica dell'incontro tra l'uomo e il toro, l'inarrivabile e drammatica verità della corrida, l'ineguagliabile profondità di un'arte indescrivibile e unica.

Paco Ojeda fu uno dei toreri che fecero la storia della corrida negli anni '80.
Nel 1988 addirittura fece filotto a Nimes, toreando consecutivamente in tutte e cinque le corse della feria di quell'anno, compresa quella miureña.

Ancora oggi, intervistato, si emoziona ricordando la faena che impose a un toro de La Quinta, a Madrid.
Era il 30 maggio del 1983.
La bestia uscì dal toril lanciando occhiate precise in direzione del torero: vediamo se ti ci metti, con me, sembrava voler dire ad Ojeda.
L'arroganza del toro bravo.
Ojeda rispose con calma francescana, atrezzando una faena verticale fatta di tranquillità e autorità insieme.
Per gli ultimi passi la distanza tra i due avversari si era ormai ridotta, annullata, fatta inutile.
Il toro mise il muso addosso al corpo del maestro, lo guardò inchiodando i suoi occhi in quelli dell'uomo, gli annusò la giacchetta, con il corno giocò curioso con i pendagli del traje.
Ojeda immobile.
Qualche minuto dopo, passeggiava con le due orecchie alla mano lungo le assi di Las Ventas.

Oggi si commuove ripensando a quel toro e a quella faena.
E chissà se erano di emozione le lacrime che lo stesso Ojeda sostiene di aver visto bagnare gli occhi dei tori, ma solo di quei tori pienamente e totallmente coinvolti nella faena, implicati nel gioco, impegnati senza concessione.
Ma bisognava esser loro vicini, molto vicini, diceva il torero, per vederle.

Nell'ottobre del 1982 Paco Ojeda combatte sei tori in solitaria, alla Real Maestranza di Siviglia.
Quattro orecchie, e l'arena è lasciata attraversando la Porta del Principe come un surfista che cavalca le onde: la tavola le spalle di un volontario, i cavalloni le braccia della folla che lo acclama, lo tocca, lo chiama, lo bacia.
Un trionfo rotondo che autorizzerebbe una festa enorme, bere fino a sfiancarsi, festa per tutta la notte, che autorizzerebbe il torero ad abbandonarsi alla felicità senza limiti-
Ma il corpo, il corpo come lui oggi dice, glielo impedì: il corpo lo obbligò a salire in macchina, dirigersi in campagna e là toreare qualche vacchetta.
Solo, senza testimoni né applausi, sotto la luce pallida della luna.



(foto Ronda - Sergio Aguilar e un toro de La Quinta, Vic Fezensac 2009)

sabato 27 novembre 2010

Saltiamo l'inverno




E pensiamo direttamente all'anno prossimo, che qua la nebbia e la nevicata imminente ingrigiscono le giornate e tengono lontani i tori.

Pamplona ha selezionato gli allevamenti per la prossima San Fermin: Miura, Cebada Gago e Dolores i ferri di maggior peso, con El Pilar e Fuente Ymbro tra gli altri.

Si è messa avanti anche Saragozza, che con una corrida di Prieto de la Cal e una di Cuadri, e una concorso interessante (Partido de Resina e Adolfo tra gli invitati) potrebbe diventare una meta appetibile per qualche buon pomeriggio di tori.

Orthez, nel sud-ovest francese, confermerà con un lotto di Dolores Aguirre e una novillada di Aurelio Hernando, sconosciuto allevatore che ha in casa del sangue veragua.

José Tomas di tanto in tanto si lascia andare a mezze frasi che fanno intendere un suo ritorno per l'anno che viene, e le grandi imprese si stanno affrettando a prenotare sestetti di tori di suo gradimento.

Partido de Resina sarà a Madrid e Nimes e in concorso a Saragozza e Vic Fezensac; Victoriano del Rio in parecchi posti tra cui anche Las Ventas dove dovrebbe apparire in compagnia del Messia; Garcigrande e Daniel Ruiz presenzieranno massicciamente in Francia, il che fa prevedere un'altrettanto massiccia calata nelle arene transalpine de El Juli, Bayonne, Arles, Nimes, Dax e altro ancora.

Escolar Gil ritornerà a Madrid, in compagnia di Palha, Cuadri e Flor de Jara in novillada, mentre El Pilar non solcherà la sabbia di Las Ventas.

Siviglia non abbandona il filone horror degli ultimi tempi e si è già dotata di un cartel terrificante.
Il toro ritratto è un Juan Pedro Domecq, n° 179, 525 kg, combattuto alla Real Maestranza il 7 aprile 2008 da José Maria Manzanares.
Dimmi che toro scegli e ti dirò chi sei...

Avanti tutta, d'altronde la prossima stagione non è così lontana.

(nella foto il manifesto della temporada 2011 a Siviglia, opera del sedicente artista JM Sicilia)

giovedì 25 novembre 2010

25 novembre, Nimeño II s'est pendu


Nimeño si è appeso. Impiccato. Suicidato.
Era il 25 novembre del 1991 e Christian Montcouquiol la faceva finita, nel garage di casa.
Là fuori la moglie e i due figli, il fratello che l'aveva accompagnato dalle capeas della speranza fino a Las Ventas o Lima, e poi gli aficionados, i tori, la passione, la vita.
Là fuori anche la capa, che non poteva ormai maneggiare più: aveva ripreso tutto a muoversi, tutto, tranne il braccio sinistro.
Niente più muleta, niente più tori, niente più vita.
Trentasette anni.
Dev'essersi impiccato con il destro.

Il fratello, Alain, scriverà per lui pagine strazianti e bellissime: sono raccolte in due libri emozionanti e commoventi, che non ogni aficionado ma ogni uomo interessato agli altri uomini dovrebbe avere, leggere, raccontare.

Panolero aveva le corna come le portiere di un taxi, quel pomeriggio ad Arles.

Da queste parti se ne è parlato poco.
E non perché la storia di Nimeño II ci sia indifferente, anzi: abbiamo mandato a memoria interi capitoli dei libri del fratello, abbiamo visto e rivisto quei pochi video o documentari che lo hanno eternizzato su celluloide, abbiamo letto, cercato, conosciuto.
Se ne è parlato poco per una sorta di senso di inadeguatezza al confronto di una storia tragica e immensa, per l'incapacità di tradurre in parole adatte la sensazione di grandezza che la figura di Nimeño II trasmette, per sincera riverenza.

Eppure, in un qualche modo, Nimeño II l'abbiamo conosciuto anche noi.
Attraverso le lacrime.
Attraverso gli occhi rossi, che si fanno umidi, attraverso le labbra che si contorcono in una smorfia, per la voce che si rompe.
E quindi le lacrime, senza vergogna, terribilmente vere.
Un torero si può conoscere attraverso le lacrime di chi lo racconta, anche a vent'anni da Panolero.

Una domenica di Pasqua, la sera ad Arles, daube e vino rosso e due commensali che l'overbooking del ristorante costringe al nostro tavolo, o forse era il contrario, noi che ci sistemiamo sul loro, sì più probabile fosse così.
Bonsoir, merci, siete italiani, che bello due italiani alla feria. E via così, bello.
Finché lui, mentre lei con un gesto che è pieno di tutto posa la forchetta e semplicemente ascolta, ancora una volta, finché lui parla di Nimeño, di quel torero con la faccia gentile, dei tori che si digeriva, della verità che metteva in ogni cosa.
E in mezzo a tutta quella gente, che si accalca all'ingresso, assalta il bancone per un bicchiere di fino, parlava ad alta voce della corrida del pomeriggio, con le sevillanas di rito, in mezzo a tutto questo, davanti a noi che aveva conosciuto mezz'ora prima e con cui aveva bevuto non più di un paio di bicchieri, quell'uomo si mette a piangere.
A vent'anni da Panolero.

Un venerdì sera a Nimes, un bel venerdì caldo di settembre, al pomeriggio corrida di Miura, serata nelle bodegas.
Un incontro programmato da tempo, di quelli che si fanno tra aficionados che abitano a parecchie centinaia di chilometri di distanza, di quelli che arrivano dopo chiacchiere invernali via mail.
Birra al bancone. Calamares. Un'altra birra. Ancora. E poi calamares e birra.
I Miura al pomeriggio. Sempre i Miura. Nimeño II.
Me lo ricordo quando andava a esercitarsi al parchetto qua vicino, aveva una parola per tutti, un sorriso per i bambini, Nimeño era come noi, uno di noi, aficionado e solo poi torero.
Me lo ricordo Nimeño, mi ricordo i suoi occhi neri, mi ricordo la sua muleta davanti al muso di quei tori.
Un sorso di birra, la voce spezzata, le lacrime.
Senza nessun imbarazzo, lacrime, lacrime per Nimeño a vent'anni da Panolero.

Fino a ieri sera, quando per caso ci siamo messi davanti a un video sui tori, ché la nebbia fuori dalla finestra invitava ad una serata casalinga.
Un documentario di un'oretta scritto su testi di Jacques Durand, che è come dire una pellicola sul calcio costruita sugli articoli di Brera.
Intervistano un appassionato, il quale con orgoglio mostra la sua collezione di biglietti di corrida.
Ora, è normale immaginarsi che quel signore fosse stato avvisato, e che magari avesse concordato cosa dire, come dirlo, di cosa parlare.
Eppure davanti alla telecamera quel signore, un signore dalla faccia simpatica, una sessantina d'anni, baffi e capelli ormai più bianchi che neri, prende l'iniziativa, recupera dall'armadio una bella scatola di latta e mostra compiaciuto la sua preziosa serie di biglietti delle corride a cui ha assistito in quarant'anni di passione: e poi decide autonomamente di tirare fuori il pezzo più prezioso, corrida del 14 maggio '89, mano a mano tra Victor Mendes e Nimeño II, tori di Guardiola.
La camera stringe sul biglietto, la voce di quel signore ci racconta quella corrida storica, epica, che un'incidente a Mendes trasforma in un solo contro sei di Christian, il quale non abdica, combatte. La camera è ancora sul biglietto ma il racconto si fa meno sicuro, le parole inciampano, balbettano.
Si torna al primo piano, gli occhi sono rossi e stanno piangendo lacrime.
Per Nimeno II, che non c'è più.

lunedì 22 novembre 2010

Integralismi


...in salsa transalpina.

A Frejus, cittadina balneare con tanto di teatro romano in cui si danno (davano, meglio) corride - la sola feria ad est del Rodano, lo slogan più utilizzato - il sindaco ha le idee chiare.
E' ora di farla finita con la morte dei tori sulla sabbia dell'arena locale, è la sintesi del pensiero del primo cittadino (qui).
Gli aficionados di Frejus, compresi e a maggior ragione gli aderenti al club taurino La Lidia, sono evidentemente scossi e angosciati.
Tanto più che (attenzione che è esilarante) il funambolico sindaco non più tardi di una decina di anni fa firmava il libro d'oro dell'arena, in occasione della feria, in questo modo: "Dal 1905, la tradizione taurina è ancorata a Frejus. L'arena romana ha trovato nelle corride la sua vocazine originale. Oggi mi auguro che Frejus ritorni ad essere un riferimento per la tauromachia e affermi la sua identità di città taurina".

Chapeau, signor sindaco.

Al contrario a Beaucaire, cittadina provenzale con una tradizione taurina viva e decisa, il sindaco Jacques Bourboursson ha preso un'iniziativa altrettanto clamorosa e di segno opposto.
In due riprese ha negato allo scrittore Henri J. Servat, di posizioni dichiaratamente e rigorosamente anticorrida, il permesso per tenere nel teatro della città il suo spettacolo, nel quale non sarebbero risparmiate critiche e ingiurie alla corrida (qui).
Le sue tesi umilierebbero e insulterebbero le tradizioni della città.

Chapeau, signor sindaco.

(foto: il manoscritto di Elie Brun, sindaco di Frejus)

domenica 21 novembre 2010

Tauroética


Tauroética di Fernando Savater è un libro denso, non particolarmente impegnativo né tantomeno lungo, ma denso sì: denso di quella profondità che hanno i titoli che obbligano il lettore a riflettere, a indagare nel proprio pensiero per confrontarlo con quello dell'autore, ad appuntare a matita a bordo pagina.

Composto di testi diversi tra loro sia per prospettive che per argomentazioni (di fatto si tratta di una raccolta non omogenea di scritti dell'autore che gravitano intorno al mondo del toro o degli animali), è nel suo secondo capitolo Nuestra actitud moral ante los animales che Tauroética disvela tutta la propria innegabile importanza e la propria limpida bellezza.
Chiariamo subito che in questa speculazione i tori non sono che un pretesto solo accennato, un punto di partenza che permette a Savater di costruire una teorizzazione seria e penetrante circa il rapporto tra uomo ed animale: in un'epoca in cui la deriva disneyana appare sempre più inquietante, in cui rapidamente ed inesorabilmente si stanno riscrivendo le leggi che regolano la correlazione tra uomo ed animali, le lucide parole del filoso spagnolo arrivano come una benedetta iniezione di buon senso, verità, intelligenza.

Si parte confutando le tesi antispeciste di Bentham e soprattutto di Singer (chi ha voglia, cerchi qualche notizia su quest'ultimo in rete, e si faccia un'idea), e si prosegue riflettendo su ontologia ed etica, sulla natura precipua dell'essere animale e dell'essere uomo.
Le conclusioni definiscono dunque le relazioni opportune tra mondo animale e mondo umano, tornando al punto di partenza quando queste sostengono che la tauromachia rientra legittimamente in questa cornice di (giusti) rapporti.

Un testo di filosofia ed etica più che un libro sui tori, quello di Savater: in ogni caso una lettura interessante ed arricchente, pure imprescindibile per coloro i quali sono attenti e appassionati al dibattito uomo/animale.

"Non pratico né la caccia né la pesca, benché consumi i loro prodotti, e nemmeno sarei capace di lavorare in un macello: conosco quello che ripugna alla mia sensibilità, però non avrei mai l'arroganza di convertire questo in norma etica da imporre a tutti".

Tauroética, di Fernando Savater, per le edizioni Turpial di Madrid: consigliato.

giovedì 18 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (seconda parte)





Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’animale che gira intorno all’uomo in una danza interminabile. Nulla è come l’uomo che sa stregare il toro e sa accompagnarlo sul cammino della perfezione fino alla morte. La muleta e il grido del torero che invita l’animale a caricare, il panno rosso e il movimento del braccio teso in avanti e le gambe divaricate e la mano sul fianco. “Mira, mira, mira, eh, bonito”. Il muso del toro e gli occhi che per un attimo sembrano percorsi da una fiammata eppoi la carica e il panno che si muove mentre le corna affondano nel corpo che non c’è e uno scarto e un cambio di mano e la muleta che ricompare nella sinistra e il toro che si volta e attacca di nuovo. Non c’è nulla da dire, nulla da fare o da commentare. Anche l’esperto che è accanto a te sui gradoni del tendido sta zitto, non ha più voglia di criticare o gridare e rimproverare i tori, i toreri, gli impresari, i cavalli e tutta la sventura di questo mundillo taurino che sta portando le corride alla disfatta, perché tutto è decadenza, tutto è noia, ormai, tutto è fine di un mondo che era beato e perfetto solo cento anni fa. No, anche l’esperto accanto a te non ha più forze per criticare e rimpiangere, anche lui tace e guarda il toro girare attorno all’uomo e sente i sospiri di chi gli è accanto e in quei sospiri si lascia trasportare.

Fu l’anno che percorremmo le strade dell’Extremadura, ci fermammo in cittadine che erano la forza dei conquistadores spagnoli, visitammo cattedrali e palazzi e regolarmente riuscimmo a infilarci nelle ferias dei paesi più sperduti pur di perderci nella felicità intrisa di morte di ogni festa spagnola. Perché questo ha la felicità tracimante che rende immortale una notte di fiesta, quel senso di morte accettata e sfidata, quell’idea della fine che è talmente onnivora da non poter essere affrontata in altro modo che con la sua esaltazione. Bere fino al termine delle possibilità umane, mangiare con una voracità che superi qualsiasi ansia di competizione terrena, giocare, danzare, gridare, amoreggiare e guardiamola in faccia la puttana morte. Così mangiammo coda di toro in una taverna che sembrava una semplice casa, sulla strada provinciale da Valverde de Leganés a Barcarrota. C’era una scritta nera sull’intonaco bianco, era una pennellata sbattuta sul muro da una mano tremante e le lettere erano ineguali: Venta. Ma cosa si vendeva? Dentro c’era una signora di una cinquantina d’anni che si arrabattava dietro tessuti che cuciva per non so quale tipo di ricorrenza. Ci disse che potevamo mangiare coda di toro, era pronta, l’aveva preparata nelle ore precedenti, ore e ore curandola con infinito amore. Se invece volevamo qualcosa di diverso la scelta era ristretta a poche cose. Non lasciammo che le elencasse e chiedemmo coda di toro. Era un miracolo che si scioglieva in bocca e un sogno che non potrò vivere mai più perché col tempo il sogno ha assunto un carattere extra-mondano come i ricordi dei tempi d’oro per gli aficionados che non si vogliono accontentare e desiderano solo sognare. La mia coda di toro perfetta resterà sempre quella della signora malinconica, la signora felice che noi fossimo lì a elogiarla, l’unica suprema coda del mondo, assieme alla coda della Mesòn de Paco a Jerez de la Frontera, una trattoriaccia dove torno sempre ogni volta che sono in Andalusia. E chissà invece se ritroverò mai la venta sulla strada da Valverde de Leganés immersa nella dehesa perfetta, tra allevamenti di toros bravos e allevamenti di maiali patanegra, chissà se ritroverò mai la signora indaffarata con tessuti di un’altra epoca. Era buio in quello stanzone dalle mura disadorne, fuori il sole attanagliava ogni cosa, ma lì regnava la penombra e la signora ci parlò dei novillos uccisi in paese due giorni prima e ci invitò a seguire la corrida della sera. E noi andammo. La plaza era dentro il paese. Sembrava uno spettacolo d’altri tempi e mentre seguivamo il flusso di gente che si arrampicava per i vicoli di Barcarrota ci chiedevamo come fosse possibile. Ma le mura della plaza erano integrate nelle mura delle case e sembrava di vivere un tempo che ci era ormai sfuggito.

Il giovane torero della zona era aspettato da un’enorme quantità di amici e conoscenti e familiari e tutto era pronto per il suo trionfo. I novillos erano piccoli e maneggevoli e i primi tre animali esaltarono l’arte dei ragazzi. Poi quando fu il momento del quinto qualcuno ripeté il proverbio “no hay quinto malo” forse per sottolineare l’eccezione perché era un toro che di caricare, lottare e uccidere sembrava non avere nessuna voglia. Il peggio fu che anche il ragazzo che gli si trovava di fronte non sembrava essere divorato dal morbo dell’aficiòn e, dopo le rose e i cappelli e i ventagli gettati al suo compagno che era l’eroe di Barcarrota, entrò nell’arena come svuotato. Fu uno degli spettacoli più dolorosi e tristi a cui potessimo assistere. L’animale scartava continuamente e il novillero ne aveva paura e tutta la corrida fu una gara del ragazzo con se stesso per non correre troppo velocemente fino alla fine, ma quando la fine arrivò invece fu lentissima. Il ragazzo si apprestò a mettere l’animale in posizione per ucciderlo dopo aver dato pochi passi di muleta, ma l’animale non allineava le zampe anteriori e il ragazzo gli sventolava la muleta sul muso per farlo spostare e l’animale avanzava, si voltava, faceva qualche altro passo e mai che riuscisse a fermarsi con le zampe anteriori perfettamente parallele tanto da scoprire alla vista del novillero il punto fra le scapole dove infilare la spada. Il pubblico intanto aveva già festeggiato e non ebbe pietà. Cominciò a rumoreggiare, a sospirare, a fischiare. Io vidi la mascella del novillero tremare di paura e di rabbia, il sudore scendere sulla tempia e gli occhi quasi vitrei e annoiati e sprezzanti fino al sussulto che spinse il ragazzo alla rabbia contro il pubblico che aveva esaltato il suo compagno per semplice spirito di appartenenza. Lo vidi che ignorava le zampe del toro e si metteva in posizione, alzava la spada sulla spalla, mirava, abbassava la muleta verso la sua destra eppoi gridava e saltava oltre le corna del toro e la spada rimbalzava sulle scapole del toro e volava via lontana. Sentii le grida del pubblico e vidi il ragazzo terreo in viso avanzare verso la spada mentre i suoi aiutanti distraevano l’animale. Vidi questa scena ripetersi quattro volte finché la spada entrò sul dorso dell’animale, obliquamente e per metà, e vidi l’animale muoversi stancamente mentre il torero era sommerso di fischi e vidi il ragazzo tentare di darsi un contegno con uno stoicismo che doveva aver tirato fuori dalle pieghe del suo terrore di fallimento tanto da apprestarsi davanti alle corna del toro ostentando uno stile e un’eleganza che parevano adesso sovrannaturali. Fischiatemi pure, cabrones – sembrava dire. Fischiate tutto, ma io e quest’animale qui siamo fratelli. E quel che fece il toro dopo? Non potrò mai dimenticarlo perché fu una delle morti più strazianti a cui io abbia mai assistito. Restò fermo ansimante con la bocca aperta a guardare il ragazzo immobile davanti a lui, lo guardò con una pena e una fraternità che ormai io consideravo evidenti. Poi si voltò, quasi salutandolo e dicendogli addio, lasciandolo al mondo putrefatto in cui il ragazzo avrebbe dovuto continuare a vivere. Si voltò e a piccoli passi cominciò a camminare verso la porta del toril, verso le stalle da cui era uscito. Forse sognava i campi in cui per anni aveva vissuto, forse sognava i suoi fratelli a cui era stato sottratto, forse cercava per l’ultima volta l’odore dell’allevamento di Salamanca da cui era stato allontanato. Sulla magnifica, antica plaza di Barcarrota scese un silenzio di tomba, nessuno fiatò, nessuno ebbe più il coraggio di mormorare nulla. L’animale si avvicinava sempre più stanco a chiqueros e quando fu davanti alla porta aprì un po’ di più la mandibola, la lingua scivolò fuori con un fiotto di sangue e alzando gli occhi oltre all’altezza da cui si lasciava cadere, il muso alto sulla porta, si accasciò. Il ragazzo restava al centro dell’arena immobile e io sono sicuro di averlo visto piangere.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Vado ai tori perché nulla, nulla, nulla in questo mondo di nani e ballerine è grande e duro e vero come i tori.



Matteo Nucci (seconda parte - fine)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)



martedì 16 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (prima parte)



Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’odore dei sigari misto all’odore dei cavalli quando si arriva alla plaza. Nulla è come lo strepito festante che accompagna l’inizio di una tarde. I venditori di noccioline e bruscolini gridano mentre uomini e donne distribuiscono il programma e offrono ventagli di carta o visiere per ripararsi dal sole e intanto gridano i venditori di sigari e gridano le venditrici di leccornie dai colori artefatti e gridano tutti i venditori di cuscini del mondo. Ci sono quelli che hanno cucito i cuscini in casa, forse con una macchina arrangiata, e le cuciture sono storte ma nessuno potrebbe vederle, loro sbattono i cuscini l’uno contro l’altro e il rumore è un rumore sordo che sembra diventare una specie di eco: almohadillas, almohadillas, almohadillas. Le signore si avvicinano protette da occhiali scuri e i ragazzi dicono il prezzo e le signore cercano di contrattare: il cuscino potrebbero comprarlo anche dentro la plaza ma suvvia, ragazzi, fateci un piccolo sconto, ci piace il cuscino giallo e rosso, ma tre euro non sono un po’ troppi?

Era la feria de abril, credo, perché doveva aver piovuto e adesso l’aria era fresca e il sole leggero e la viuzza che sale alla Maestranza da calle Adriano, lì accanto al negozio di cappelli e souvenir, erano scalini cosparsi dal terriccio dell’arena, il terriccio che viene fuori dall’entrata del patio de caballos e l’odore era fortissimo e noi cominciammo a mimare naturales e derechazos, finalmente si ricominciava, finalmente si tornava ai tori, la stagione per noi riapriva davvero. Avevamo mangiato gamberetti alla Bodega San José, avevamo bevuto bicchieri di vino bianco eppoi qualcuno ordinò un piattino di formaggio e del vino tinto, così cominciammo a bere altro e un vecchio che era lì vide i biglietti che avevamo comprato dal reventa perché la corrida era di quelle buone e era già tutto esaurito fin dal mattino e ci prese in giro, ci disse che italiani così non ne aveva mai visti e volle offrirci da bere e disse che prima della corrida, prima di una corrida come quella, non si poteva bere altro che whisky e cola e allora ordinò per noi, ci offrì sigarette bianche da un pacchetto di Ducados e ci raccontò di quando aveva rischiato di far fallire il suo matrimonio per colpa di Curro Romero. Curro Romero, lo conoscete? C’è la sua statua lì davanti alla Maestranza. È ancora vivo, ma è già una statua, è un mito, è uno stato d’animo, una categoria dello spirito.

Ci sapeva fare, con i racconti, il vecchio. Disse che, quel mattino di trent’anni prima, la corrida che si aspettava era critica. Per due tardes Curro Romero si era quasi rifiutato di toreare, lì, nella sua Siviglia, la sua patria, il suo mondo. Erano state due umiliazioni per tutti i suoi sostenitori, i cosiddetti curristi, mentre gli anticurristi gioivano e dicevano: vedete? Questo è il vostro torero, questo è l’uomo, ossia il mezzo uomo che senza i suoi mezzi tori non vive, non esiste, non torea. Noi eravamo affranti e per giorni non riuscimmo a darci pace. Quando Curro Romero faceva così per noi era una tragedia, era come se tutto stesse per crollare, come se il mondo stesse per finire, come se la vita non avesse più senso. Vi potete immaginare mia moglie? Vivevamo a Triana, dove sono nato, e in quei giorni non ero stato più un uomo, non ero più me stesso, capite? Dico con mia moglie, eh! Semplicemente c’ero e non c’ero e faticavo a essere quel che posso essere e non riuscivo a non pensare a Curro e alla sua tragedia, la nostra tragedia, fino a quando il sonno mi portava con sé. Poi si venne a sapere della sostituzione. Un torero, non mi ricordo più chi, fu ferito e per sostituirlo fu chiamato Curro Romero. Avevamo un’altra possibilità, l’ultima qui a Siviglia, per rivederlo davvero e temevamo tutti il disastro definitivo. Mia moglie seppe e mi disse: stavolta non ci sono santi, o me o Curro Romero. Se domenica vai ai tori, a casa non mi trovi più. Le feci la promessa. Per tutta la settimana pensai a come fare per ingannarla. I biglietti li avevo comprati subito e i miei amici mi volevano con loro fin dal mattino ma dissi che ci saremmo visti direttamente ai nostri posti del tendido. Non avevo un piano, nessun piano.

Arrivò la domenica, era un giorno bellissimo e il sole incendiava calle Pureza e io e mia moglie uscimmo presto e passeggiammo in giro per la città e, di ritorno, quando era ormai l’una, passammo dalla chiesa di Santa Ana e ci fermammo al bar e le proposi di mangiare caracoles ché era arrivato il periodo delle lumache e lì al bar di Santa Ana le lumache sono le migliori di Siviglia. Ci mettemmo al sole e mangiammo eppoi prendemmo qualcos’altro, non ricordo cosa, bevemmo, mangiammo altro ancora e bevemmo eppoi prendemmo un caffè e un brandy. Pensavo che si sarebbe ubriacata e si sarebbe addormentata ma mi sentivo talmente felice e talmente ubriaco io stesso che i miei piani improvvisi non valevano più nulla e continuavo a bere brandy, almeno quello riuscivo a farlo, non prendevo whisky e cola pensando che sennò mia moglie avrebbe capito tutto, continuavo a ordinare brandy e già immaginavo la sera e mi dicevo che niente sarebbe stato bello come la corrida e quasi avrei voluto gridarlo a quella donna che amavo così tanto e condividere con lei quella felicità. Tornammo a casa abbracciati, i ragazzini giocavano a pallone su calle Betis e noi guardavamo il Guadalquivir e ci baciavamo e io guardavo la plaza e mandavo i miei baci anche alla Maestranza e vedevo il colore ocra e bianco delle sue mura e già sognavo la cappa di Curro Romero. I ragazzini ridevano mentre ci baciavamo e cercavano di guardare le mie mani e il suo corpo, mia moglie era bellissima, io la stringevo, loro guardavano, lei lo sapeva e le faceva piacere, finché non la presi per mano e corremmo a casa e a casa? Be’ non vi racconto nulla di questo, potete immaginarvelo, fu una cosa pazzesca, talmente pazzesca che entrambi, nella felicità, nel caldo, nell’ubriachezza e nel piacere, sotto la pala che muoveva aria dal vecchio soffitto, crollammo addormentati. Mi svegliò lei alle cinque e mezza, col caffè, dicendomi “amore, amore, svegliati” e io la respingevo e lei insisteva “amore, amore svegliati, sennò ti perdi la corrida”. Balzai su, volevo piangere di felicità: capite cosa significa avere una moglie? Una moglie vera? Lei sapeva tutto. Aveva capito ogni cosa. E io corsi via. E sapete come andò? Potete immaginarvelo. Curro Romero entrò nell’arena tra fischi e ovazioni eppoi appena aprì la cappa con il suo primo toro fu subito silenzio, fu silenzio assoluto, e tutti capirono, anche gli anticurristi, che la magia era tornata. Fu una tarde epica, qualcosa di incomparabile con qualunque altra cosa mi sia capitata nella vita. Dunque ora andate, andate, bevete con me, ecco, brindate, ci vediamo dopo magari, oggi sarà una bella corrida, ma io non vengo, no, io non vengo, io non vengo più.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come lo scintillio dei lustrini sul traje de luces quando comincia a scendere la sera. Nulla è come lo strambo suono del clarino a scandire gli atti della tragedia. Il toro entra in pista e pare una furia spaesata. “Ha guardato a destra, non può essere manso” dice un tipo accendendosi l’ennesima sigaretta e il suo amico gli fa “superstizioni, galoppa, non vedi?” Gli zoccoli strusciano sull’arena, si sentirebbe anche il fruscio di un pezzo di carta strappato tanto è il silenzio che è sceso sulla piccola plaza, nessuno dice nulla, perché tutti studiano l’animale e si sentono solo i rumori delle cappe che i subalterni del matador tirano fuori dal burladero incitando il toro a correre in circolo, poi forse si sente anche il passo del Maestro e di sicuro il rumore della cappa che si apre e diventa un lenzuolo davanti al corpo del torero, il lenzuolo che Veronica si dice abbia offerto a Cristo mentre camminava sulla strada del Golgota. Il toro osserva la cappa come forse Cristo, sanguinante, osservò il panno e ci affondò il viso in cerca dell’ultima freschezza. Il toro corre verso il panno, getta le corna per colpire la vita che crede di aver visto con i suoi occhi di miope, prima un corno poi l’altro, uno scatto repentino, ma non trova che freschezza, la freschezza dell’inganno che scivola via mentre il corpo dell’uomo, la vita che il toro non vede, si muove lentissima in un volteggiare sognante. C’è un’anima che percorre gli spalti e, comandata da una specie di dio, fa sospirare un olé lunghissimo, estasiato.

Era l’anno che guidammo da Albacete a Murcia lungo la statale che corre parallela all’autostrada. Non so più chi l’avesse proposto ma c’era tempo, nessuno ci correva appresso: perché allora non prendere la strada più bella? Perché non viaggiare tra i campi coltivati, sulla strada dritta che si perde in saliscendi interminabili, il verde percorso da sprazzi di vento che sembravano disegnare striature metalliche sulle colline intorno, eppoi i campi arati, le zolle rivoltate e quel colore rossastro che pareva quasi sanguinante? Ci fermammo a Tobarra perché sulla mappa accanto al paesino c’era una specie di ferro di cavallo, e quel ferro di cavallo sulla cartina stradale indicava la plaza de toros e volevamo vedere la plaza de toros di Tobarra, era sabato, non era neppure l’una, di questo sono sicuro, perché cominciavamo ad avere fame e quando arrivammo per un attimo ci parve un sogno l’odore che usciva dalla porta accanto alla taquilla. Non ci aspettavamo certo di poterla trovare aperta e si sentiva un profumo di cucina esaltante e non era affatto un nostro delirio. Ci affacciammo. Qualcuno gridò qualcosa, chiedemmo chi ci fosse in giro e intanto guardavamo le rifiniture perfettamente dipinte di rosso e il legno elegante e la sabbia compatta sotto quella luce giallognola che filtra attraverso i materiali bianchi che vengono usati quando si decide di coprire certe plazas de toros e salvare gli spettacoli dalle possibili piogge. Certo non sapevamo che la plaza di Tobarra fosse coperta, ma in quel momento ci importava poco. Arrivò un omone con un lungo mestolo di legno in mano, ci chiese con fare burbero cosa volessimo e, quando capì che volevamo visitare la plaza, disse: andate dove volete. Ma il profumo era qualcosa che avrebbe fatto resuscitare i morti e noi percorremmo gli spazi destinati all’orchestra distratti, visitammo il palco presidenziale distratti, scendemmo i gradoni del tendido fino al callejon dove stazionavano i toreri e la loro cuadrilla sempre distratti e finalmente andammo verso il toril dove su un enorme fornello portatile collegato a una bombola stava la grande pentola metallica in cui sfrigolavano pezzi di carni, pollame e altro galleggianti nell’olio in cui l’omone versava scatole di pelati. Ci spiegò come avrebbe fatto la paella, ci presentò il fratello, il guardiano della plaza, e ci indicò la figlia e la moglie e ci disse che di sabato mangiavano lì e che le corride erano programmate a febbraio e agosto e che a febbraio spesso pioveva, per questo avevano deciso di coprire la plaza, dieci anni prima. Ci disse di come, durante l’anno, curavano ogni dettaglio di quel monumento al toro e ai toreri, ci raccontò della cura maniacale con cui il fratello viveva per la plaza e ci offrì birre e brindammo, bevemmo, raccontò di toreri e tori, e infine ci invitò a venire il prossimo sabato a mangiare con loro, avrebbe preparato una paella più consistente, stavolta non erano in programma le nostre quattro bocche ma ci avrebbe volentieri fatto assaggiare anche oggi, solo che per darci davvero da mangiare avrebbe dovuto saperlo con il giusto anticipo. Non la finiva di scusarsi, era davvero dispiaciuto. Intanto lasciò scivolare nel pentolone calamari, vongole, cozze e gamberi e l’odore nel coso taurino di Tobarra fu tale che cominciavamo a essere impazienti e bevemmo ancora e brindammo e salutammo, saremmo tornati, saremmo tornati di sicuro, ma non il sabato dopo, il sabato dopo dovevamo già essere di ritorno in Italia, forse a febbraio, forse a febbraio per le prime corride dell’anno, salutammo e augurammo buon pranzo, vennero tutti a dirci ciao sulla grande porta e ci spinsero a un ristorante di Hellin sulla statale pochi chilometri dopo Tobarra e ci fermammo lì, si chiamava El Albero e il motto era “Aperitivos y comida con trapio”, il trapio, l’eleganza del toro.

Mangiammo a El Albero fra manifesti di corride, tori attaccati alle pareti, traje de luces donati da celebri matadores, mangiammo nel locale dell’aficiòn del luogo e mangiammo commuovendoci di fronte a bistecche alte tre dita, scottate sulla brace e ricoperte da scaglie di sale grosso, bistecche che facevano venire i brividi, carne de gallina disse il proprietario ridendo, la stessa carne de gallina che può venire assistendo a una faena memorabile, un toro straordinario, ma stavolta la carne de gallina, la pelle d’oca, era per la più buona bistecca che mangiavamo da secoli e bevemmo vino rosso, un Cune, La Rioja, e quasi piangevamo quando uscimmo nell’aria calda del pomeriggio, mancavano settanta chilometri a Murcia e alle sei ci aspettavano i tori.


Matteo Nucci (prima parte)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)

venerdì 12 novembre 2010

Quell'odore, a Barcellona


Un venerdì sera di metà luglio a Barcellona.
Prima volta a Barcellona, per inciso: la combinazione tra una corrida la domenica e le tariffe ryanair è stata convincente.
Bella città, ma imperfetta: cose grandiose ma sparpagliate qua e là, senza un'identità che faccia da collante, e con poca Spagna, troppa poca Spagna.

Aeroporto-bus-albergo.
Poi via a visitare un primo pezzo di città, in quello che rimane del pomeriggio.
Barcellona è colorata: i toni sgargianti e impazziti delle ceramiche di Gaudì, il blu del mare e il cupo mattone del gotico, l'arcobaleno dei frutti esposti sulle bancarelle e il giallorosso vivido della senyera.
Le piume degli uccellini nelle gabbie, le straordinarie idee di Mirò, iridescenze, luci, colori ovunque.

La prima giornata passa così, a passeggiare distrattamente e con un occhio furtivo alla guida, ramblas, barrio gotico, il mercato coperto, lì intorno insomma.

Dopo un paio d'ore è però chiaro che c'è un problema.
Di tori, neanche l'ombra.
Non una testa imbalsamata, non un cartel, non una foto, un richiamo, un'evocazione.
Va bene che siamo venuti anche per visitare la città, ma sono i tori ad averci spinto fin qua, domenica al pomeriggio saremo all'arena, ma sembra che quello della Monumental sia un segreto che custodiamo noi soli.
I tori resistono al limite sulle magliette e sui gadget pacchiani che i chioschi vendono ai turisti, simbolo di una Spagna che qui mai fu e che però danno al souvenir un brivido di consolatorio esotismo, icone di un'ideale di ispanità che è d'obbligo riportare a casa, come un inevitabile trofeo, quasi fosse che proprio quel turista ha vinto proprio quel toro stampato sull'accendino.
Andare a vedere una corrida a Las Vegas deve essere più o meno così, pensiamo.

Il pomeriggio volge al suo termine, il cielo fiammeggia del rosso del tramonto, e un paio di bicchieri annunciano e aprono la serata.
Non rimane che infilarsi da qualche parte per la cena.
Finiamo a Tapas 24, e ci va bene.
Atmosfera insieme popolare e cool, qui i piattini assumono una dignità nuova, si fanno interpretazioni in sedicesimi di una cucina vivace, fantasiosa e coraggiosa.
Una bottiglia di rioja blanco accompagna le nostre scelte, guidate dalla curiosità di assaggiare e provare, essenzialmente: hamburger al fegato grasso, toast al tartufo, mousse di cioccolato con olio extravergine, e poi ancora altro.

Bella giornata dunque, chiusa con la più piena soddisfazione di palato e pancia.
La menta del mojito per finire.
Ma manca qualcosa, sulla metro che ci riporta in albergo sappiamo che manca qualcosa.
Che poi per un aficionado, forse, quel qualcosa è tutto.
Si va a dormire così, con un retrogusto di incompiuto.

Fermata Monumental, che per una cuorisa combinazione l'albergo è proprio lì.
Fuori dal tubo sotteraneo, un silenzio irreale: sono lontani i clamori della città, è lontana la vita pulsante attorno al porto o quella frenetica nel barrio.
La Gran Via è percorsa, chissà perché, da poche e solitarie macchine.
Diamo un'occhiata: là in fondo la Torre Agbar, moderna e ambiziosa, e alle nostre spalle la Sagrada Familia, altrettanto moderna e altrettanto ambiziosa.
In mezzo, l'arena.
Il contrasto tra i tre elementi è sconvolgente è affascinante.
Ci avviamo verso l'albergo, l'aria è fresca, i pochi lampioni diffondono una luce calda e rarefatta.
Bella giornata, ma qualcosa è mancato.
Costeggiamo i muri dell'arena, per arrivare all'hotel.

E improvvisamente eccolo.
Come una piena di un fiume dopo le pioggie d'autunno, non chiede il permesso, arriva e tutto travolge.
L'odore.
Le narici sono possedute, l'olfatto violentato, il cervello va in fibrillazione.
Torna alla mente tutto, ogni immagine, ogni momento, ogni brivido.
Ogni perché.

Odore di tori, cavalli, animali.
Siamo davanti all'arena e ci fermiamo.
Da dietro quel muro di mattoni rossi, da là dentro, dai recinti, dagli stalli, arriva quell'odore, che è impossibile non riconoscere e al quale è impossibile opporsi.
Il profumo della paglia e del cuoio, l'odore dei muscoli, del crine, il tanfo dello sterco, l'odore della terra, del fango, ormoni, sudore, sangue, il profumo dell'erba ancora sotto gli zoccoli, l'odore di sabbia e di legno, quello del morso e dei paramenti, l'odore di testosterone, di eccitazione animale, adrenalina.
Siamo immobili ad annusare e riconoscere ogni sfumatura, ogni sensazione, ogni nota.
Da dietro quel muro arriva l'odore.

Ci sono i tori, ci diciamo.

Dai vieni, possiamo andare a dormire.


(foto Ronda - al Tapas 24)

mercoledì 10 novembre 2010

Il mestiere di arrangiarsi




Lasciamo perdere i primi 10/15 dell'escalafon, che si esibiscono nelle arene con contratti a 5 zeri: si dice che don José Tomas fosse arrivato a chiedere 400.000 euro per il ritorno a Las Ventas, e i vari Juli, Castella, Ponce nelle arene più prestigiose si vestono di luci non prima di aver pattuito onorari da favola. La cosa non scandalizza più di tanto, un appuntamento con la morte non ha prezzo, e sarà banale ma se pensiamo ai vergognosi cachet dei nostri calciatori i duecentomila che chiede Juli a Madrid sono noccioline.

Ciò che è interessante è capire come se la cavano i toreri che non sono esattamente delle star, o i loro subalterni: le cifre scritte sui contratti in questi casi sono assai più modeste, e ci ricordiamo per esempio dei 9.000 che intascò l'anno scorso Julien Lescarret (torero d'alternativa, si intenda) per combattere una corrida di Palha.
Novemila euro, che al netto delle spese per la quadriglia e il resto si riducono a molto meno, per mettersi di fronte a tori con casta, selvaggi e non propriamente accomodanti.
Il tutto per quante? cinque, dieci corride l'anno a dire molto.
Lasciamo perdere perciò il fortunato gruppetto in fuga: il punto è che nel plotone che (in)segue le dichiarazioni dei redditi non devono essere troppo ricche.

Ci si deve arrangiare dunque, ché in inverno mica tutti si va in Sud America.
E si trovano occupazioni collaterali, che integrano, aiutano, e soprattutto consentono di alimentare il sogno.
Quando gli olé delle arene sono lontani, quando per far scrivere il proprio nome sui carteles bisogna sudarsela, quando per comprare un traje c'è da fare sacrifici o per allenarsi non c'è la tenuta di famiglia, ma il parco pubblico del paese.

Ecco che Denis Loré, matador francese abituato alle corse dure e ritiratosi nel 2007, negli ultimi anni di attività arrotondava guidando bus, chauffeur.
Morenito de Nimes ha una cattedra di spagnolo in un liceo della città natìa.

Salvador Cortes, quando non torea nella sua Siviglia o a San Fermin, serve caffé e cervezas e si muove tra i tavolini di un bar.
Frascuelo, quel Frascuelo che ha una faccia da torero unica e incredibile e che l'anno scorso a sessant'anni suonati si è preso il lusso di venire a Ceret e di insegnare a tutti cos'è la toreria, è uno stuccatore.
Marc Serrano lavora in un'agenzia di assicurazioni a Madrid, Miletto all'impresa di pompe funebri della famiglia.

Alberto Aguilar fino a quest'anno era disoccupato, in passato si occupava di carico e scarico merci sui camion, e aveva provato ad aprire un bar, fallito.
Diego Urdiales è un imbianchino.

Anche Domingo Navarro non sfugge alla regola.
Banderillero per vocazione, officia agli ordini di diversi toreri, l'abbiamo visto a Pasqua ad Arles con Bolivar rischiare una cornata terrificante e ha seguito per anni Esplà.
Da vedere questo bel video: Navarro passa dall'ovazione di un'intera arena che, tutta in piedi, lo acclama e lo obbliga a salutare, ai banchi di un mercato coperto.
Fa il salumiere.
La domenica le banderillas a Las Ventas, ad un Adolfo Martin, il lunedì ad affettare del jamon per la signora venuta a far la spesa.
La domenica vestito d'argento, il lunedì con il grembiule bianco.

Quando non sei una star, ci si deve arrangiare.
Cayetano poveraccio è costretto a fare il modello.

(foto Ronda - Urdiales, ovvero la grinta dell'imbianchino)

domenica 7 novembre 2010

Una foto (7)




(foto Ronda)

sabato 6 novembre 2010

Fuga di cervelli


Periodo di intensa attività e successi in terra iberica per il nostro lettore ed occasionale collaboratore Marco Coscia.
Se non proprio in tutta la Spagna, perlomeno in quella dell'aficion: c'è anche la sua firma su un paio di riviste taurine editate di là dai Pirenei.

Innanzitutto è sua la la foto qua a fianco, che campeggia sulla copertina del nuovo numero (sarà presentato proprio oggi) del Cerro de San Albin, corposa rivista dell'Associazione Culturale e Taurina omonima, di Merida.
Ritrae un toro di Cuadri al campo.

E poi soprattutto sono di Marco Coscia due articoli che compaiono sul più recente volume de El Aficionado, la fanzine dell'associazione culturale La Cabana Brava: la si scarica e legge a questo indirizzo (cliccare su descarga).
Nei due scritti, un'attenta analisi della corrida concorso settembrina ad Arles e un'ode a quel monumentale paio di banderillas messe a Ceret e di cui già avevamo dato notizia su Alle Cinque della Sera.

giovedì 4 novembre 2010

The Matador



Diciamo subito che la visione de The Matador non è così terrificante come uno si aspetterebbe da un film biografico su El Fandi.
Il regista, tale Stephen Higgins, ha curato bene i dettagli: le sequenze all'arena sono avvincenti, ben girate, incatenate l'una all'altra e montate con una sensibilità particolare.
Per dire, il tanto acclamato Manolete con Adrien Brody ha sprecato un'occasione magnifica, traducendo la corrida in immagini senza profondità, nervose, meccaniche.
The Matador, su questo piano, è decisamente meglio: alcuni scorci sulla Spagna dei tori, alcune panoramiche di respiro e i dettagli sul torero e sugli avvenimenti sono tutte cose ben fatte e la visione è piacevole, quantomeno piacevole.
Curata, originale ed efficace la colonna sonora.

C'è che il film trasuda di un malcelato hollywoodismo che lo attraversa dal primo fotogrammo all'ultimo: è tutto molto yankee, il torero è un eroe che nasce da una famiglia modesta, parte con le migliori intenzioni, poi cade vittima di un infortunio grave ma alla fine si riscatta e il bene trionfa sul male.
Il meccanismo più classico, infallibile ma anche inflazionato.
Insomma, sembra proprio che Higgins e El Fandi si siano trovati: la poetica del regista si sposa perfettamente con l'approccio del torero alla tauromachia, e tutto ha una visione molto trionfalista e la ricerca affannata dell'epicità a tutti i costi si impone sulla narrazione e sui canoni.

Tutta la pellicola ruota intorno all'ossessione del giovane David a voler raggiungere il tetto delle 100 corride toreate in un anno: le stagioni passano e il nostro eroe si avvicina sempre più a quello che per lui e il regista è evidentemente un prestigioso traguardo, ma succede sempre qualcosa e ci si ferma a 30, 70, o giù di lì.
Finalmente alla fine El Fandi riesce ad onorare i centro contratti nella stagione 2005, lui è contento, il regista è contento e noi tra un pop-corn e l'altro sospiriamo di sollievo: missione compiuta.

A onor del vero alcuni passaggi sono davvero riusciti, e questo Higgins con l'azione ci sa fare.
La ricostruzione della encerrona del 28 maggio del 2005 nella natìa Granada, corrida davvero mitologica (El Fandi passò tre quarti d'ora in infiemeria tra un toro e l'altro, si fece operare e ricucire senza anestesia e tornò per tagliare una manciata di orecchie una coda), è palpitante, elettrica e rapisce lo spettatore.

The Madator, via, in sintesi: c'è di meglio ma c'è anche di peggio.
Da vedere, comunque, ché l'inverno è lungo e primi tori sono così lontani.


* qui un trailer
* qui la pagina ufficiale del film

mercoledì 3 novembre 2010

Dudum dudum




Si clicca sull'immagine e si vede una insospettata Pantera Rosa torera.

martedì 2 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida



Beh, non è che sia semplice da spiegare...ho provato a scriverlo a penna, poi l'ho copiato qui. Perchè?
Mi sa perchè, alla fine, è e resta una cosa antica, un piacere un pò fuori dal tempo, che nasce forse da una nostra cultura, antica appunto, e personalissima.
Infatti, in Italia, non siamo in tanti, no? Fatte le dovute proporzioni, nemmeno in Spagna o in Francia, a pensarci bene.
E' il "mundillo".
Per non essere troppo banali, ci dobbiamo, secondo me, dimenticare il motivo originario, che in realtà, è banalissimo, perchè è la curiosità. Magari siamo capitati in quel posto (Pamplona, per me) e siamo andati alla corrida.
Poi però ti viene voglia di vedere come è anche in altre città, in altri luoghi, in Spagna, in Francia.
E diventa un piacere leggere, d'inverno, quando le corride non ci sono, e aspettare la primavera per vederne ancora, e cercare di capire...e capire che di capire non si finirà mai!
E allora diventa una libidine cominciare ad organizzare il prossimo viaggio taurino, e girellare con gli amici in una città nuova, che ti piace o non ti piace, ma che è taurina in un modo diverso da tutte le altre, e via via che si avvicina l'ora della corrida, senti sempre che è più vicina, e sei passato dall'arena poche ore prima, per vedere come è, perchè non l'hai mai vista, oppure l'hai già vista parecchie volte, ma ci passi lo stesso.
Ora però che manca mezz'ora all'inizio, vedi che c'è un bel pò di gente, tutti appassionati, ed anche te lo stai diventando, lo senti, sei un pò ingenuo, ancora, ma va bene così.
Si perchè lo vedi quello con la coppola ed il sigaro, ma c'è anche una bella signora, lì accanto, o i due fidanzati, e lei che grida "olè", e poi piange una lacrimuccia quando il toro viene ucciso...
Il toro...tutto gli gira intorno, già, e sono momenti indimenticabili quando lo vai a vedere a casa sua, nel campo, e resti a bocca aperta, ma non è questo andare alla corrida, no, si va fuori tema?
Allora, alla corrida, no, qualche ora prima, che sei a pranzo in un magnifico locale taurino, a Triana, o a Zaragoza, e ridi, scherzi, e parli di tutto, e ad un certo punto uno fa "si, ma che mi dite della corrida di oggi?", e ne parli, ne discuti, ed a volte letichi anche, e oggi dici "vi rendete conto che siamo venuti qui apposta a vedere i Victorinos?"...
E se sei fortunato, la tua compagna ha capito questa tua passione, e ti lascia andare, quando non può venire con te, e quando rientri, che hai visto una grande corrida, e le dici che nel silenzio magnifico di una faena magnifica una magnifica musica è suonata, ed un toro grande, forte e coraggioso ha ballato insieme al suo torero fino alla fine, e poi, "mi porti con te la prossima volta?", "si, certo, si potrebbe andare qui, che non ci siamo mai stati, dicono che è bello..."


Marco Garosi


(foto Ronda . per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)


lunedì 1 novembre 2010

Il Tex a disposizione


Per chi non vuole trascorrere i pomeriggi domenicali sulle bancarelle dell'usato, per chi ha fretta e i tempi della Bonelli sono troppo lunghi, per chi giustamente vuole risparmiare approfittando delle grandi possibilità della rete...voilà: il Tex sui tori è disponibile.

A questo indirizzo si scarica il pdf dell'ormai celebre 488, Matador!.