martedì 31 agosto 2010

Ronda (il fantasma di Pedro Romero)




Riprendiamo dopo le vacanze agostane con un pezzo che potrebbe apparire autoreferenziale, ma che in effetti e per fortuna non lo è.
Francesco Ferri è un poeta piacentino, curioso delle cose del mondo, un viaggiatore incallito che pure raramente ha lasciato la accogliente e confortante sponda destra del Po, autore di una raccolta di sue opere dal titolo Monologhi ed uscita qualche anno fa per le edizioni Vicolo del Pavone.
Curioso delle cose del mondo, si diceva, e dunque anche della nostra passione per i tori: a un paio di chiacchierate sono seguite fugaci letture, fino a che la penna non si è messa a scrivere quelle rime baciate che sono la sua cifra stilistica.
Pubblichiamo volentieri questa sua poesia, che fa parte di un corpo di scritti su spiriti di personaggi noti e meno noti del passato.


RONDA (IL FANTASMA DI PEDRO ROMERO)


Vedo il fantasma di Pedro Romero

mito, invincibile e invitto torero;

laggiù nell'arena perfetta, rotonda

laggiù nell'arena sorgente a Ronda.

Vedo quel toro, ferito lo sfida

combatte quel dramma chiamato corrida

non ha più forza, fa un ultimo scatto

diretto a quel velo colore scarlatto;

Pedro che osserva lo sguardo arcigno

Pedro capisce; è il canto del cigno;

è solo la rabbia dell'ultima bizza

che una sconfitta soltanto esorcizza;

scatto d'orgoglio ma scatto perdente,

Pedro ha già vinto, manca solo un fendente

e la sua vittoria è un trionfo assoluto...

Pedro si ferma, e rimane muto;

il Toro è sfinito, non reagirà

ma anche lui ha la sua dignità.

Pedro ha compreso e le armi depone

poi fissa il toro che più non si oppone;

ha lottato in fondo, fino allo stremo

e Pedro dice: "avversario supremo";

ferirlo ancora o colpirlo di netto

meschina e assoluta assenza di rispetto.

Ma Pedro è un signore e cala il sipario

mostrando ammirazione per il suo avversario.

Maestro, Campione, ma anche Uomo Vero

è l'importanza di esser Torero.

Pedro saluta pubblico e toro

Pedro esempio di arte e decoro

fa ora un inchino, l'emoziozione si scioglie

in un applauso infinito, mentre un pianto si coglie;

è infinita commozione: avversari all'altezza

vincitore o vinto, sono di eguale grandezza;

le mani che battono per il toro leale

e per il torero che non è plateale.

Pedro Romero tu hai vinto ancora

Perdro Romero, la tua pulizia ti onora

un mitico alone ora ti circonda

e assieme a te la splendida Ronda.

- di Francesco Ferri -

(tautologia pura: foto Ronda - l'arena di Ronda)

venerdì 20 agosto 2010

Una foto (6)






Nel mentre di questo agosto, i nostri inviati ci hanno aggiornato e ci aggiornano con sms da Vitoria, Beziers, Madrid, Dax, Parentis, Tafalla, Cenicientos, Bayonne, San Sebastian.

Il blog riprende con la consueta (in)constanza verso i primi di settembre.


(foto Ronda - Ceret 2010)

domenica 8 agosto 2010

Belmonte, la Catalogna e Nucci

Dovrebbe uscire oggi su Il Domenicale un pezzo a firma di Matteo Nucci, che parte dalla Catalogna per parlare di Belmonte, e parla di Belmone per spiegare la Catalogna.
Usiamo il condizionale perché non ne siamo sicuri, edicole qua vicino al nostro buen retiro montano non ce ne sono, e quindi possiamo solo fidarci della soffiata che avevamo avuto.
Ma poco male: noi il pezzo ce l'abbiamo già, e per intero, e dunque finisce dritto dritto sulle pagine di Alle Cinque della Sera, in questa bella domenica di inizio agosto.
Bravo ancora una volta, Nucci.


Juan Belmonte e la Catalogna

Quando, il 28 luglio, il Parlamento Catalano ha dato il definitivo via libera all'abolizione delle corride nella regione, presumibilmente nessuno avrà pensato a Juan Belmonte.
Uno dei toreri più importanti del Novecento, quello che cambiò per sempre l'arte di sfidare il toro selvaggio, esattamente cento anni fa uccise il suo primo animale, ma nessun giornale spagnolo se ne è occupato in questi giorni, e nessuno, neppure fra i più appassionati sostenitori dell'arte tauromachica, quelli che hanno cercato fino alla fine di salvare la fiesta nacional in Catalogna, ha pensato a lui.
Il dibattito sull'abolizione che è andato avanti negli ultimi mesi in Spagna aprendo ferite che sarà difficile rimarginare, arrivato alla sua fase finale e decisiva, sembra non concedere spazio a festeggiamenti di sorta.
Figuriamoci Juan Belmonte e il centenario del suo primo toro.
Eppure il libro che è stato recentemente ripubblicato proprio da un editore catalano, Juan Belmonte, matador de toros (Libros del Asteroide, pp. 345, euro 17,95) di Manuel Chaves Nogales s'inserisce perfettamente nella polemica, anche letteraria, che ha animato il dibattito sulla corrida.
Sono intervenuti un po' tutti, i grandi scrittori e intellettuali di lingua spagnola, da Mario Vargas Llosa a Javier Marias, da Javier Cercas a Fernando Savater, pur di mettere ben in chiaro che la corrida, per quanto spettacolo cruento in cui si dà morte pubblica a un animale, appartiene alla sfera dell'arte, un'arte la cui libera espressione non dovrebbe mai essere limitata. Oltretutto, come hanno spiegato in molti (e su tutti magistralmente Vargas Llosa) l'arte di sfidare e uccidere tori da combattimento non è soltanto in se stessa un'arte, per quanto effimera e indissolubilmente legata al momento – unico – in cui si svolge (come il teatro, del resto), ma è fonte d'ispirazione per altrettante forme d'arte e una delle prove più lampanti sta proprio nell'infinita produzione artistica che alla tauromachia si è ispirata. I nomi più altisonanti li conosciamo tutti: Goya e Picasso, Garcia Lorca e Neruda, Botero, Dalì, Bizet, Orson Welles, Hemingway, Cocteau.
Molto meno conosciuti, almeno in Italia, gli innumerevoli scrittori di letteratura taurina, tra cui non può che finire anche questo piccolo capolavoro su Belmonte, il cui autore in realtà non fu mai un aficionado a los toros (come si dice in gergo per definire un appassionato di tori, visto che i tori e non i toreri – che lo si voglia o no e certo assai stranamente per gli inesperti – sono il vero centro della passione taurina).

Manuel Chaves Nogales fu uno straordinario reporter nella Spagna degli anni '30. Scrisse libri che sono ora al centro di una intensa rivalutazione e nel 1935 pubblicò a puntate su Estampa, rivista al tempo molto nota, la biografia in forma letteraria e rigorosamente in prima persona di quello che allora era l'indiscusso re della tauromachia.
Poi pubblicata in forma autonoma, la biografia ebbe un notevole successo ma finì presto relegata tra i libri fondamentali delle biblioteche taurine, quelle biblioteche che assai poco spesso hanno superato i confini del paese e dello specialismo. Del resto, allora, la guerra civile era alle porte, Chaves Nogales abbandonò la Spagna per Parigi eppoi, con l'occupazione tedesca, si spostò a Londra, dove morì nel 1944 a 47 anni.
Dovevano passarne più di sessanta perché il suo nome tornasse al centro di serie discussioni fra i letterati.

Il suo Belmonte, comunque si debba giudicare l'opera dell'autore, resta fra i libri di maggior spicco. Perché, attraverso l'uomo e la sua ascesa nell'empireo della tauromachia, Chaves Nogales racconta in forma quasi romanzesca ("una biografia che leggo come un romanzo" ha sentenziato Javier Marìas) la Spagna del primo Novecento, nonché tutto quel che ha a che fare con la sfida ai tori, dagli allevamenti ai loschi giri del mundillo taurino, la piccola giostra che segue da secoli un mondo criticatissimo nell'era del politically correct e apparentemente in via d'estinzione.
Che questo mondo possa scomparire proprio completamente poi è un'altra questione.

Certo, la Catalogna ha sempre rivendicato la sua estraneità alla cultura della fiesta nacional (la festa dei tori, definita nacional da fine 800 per la forza con cui muoveva le masse) e ormai da molti anni l'unica plaza de toros dove si celebri il rito tauromachico è la Monumental di Barcellona. Già il cantore dell'epos taurino più noto alle masse, Ernest Hemingway, nel 1932, scrivendo quel manuale di corride che è anche manuale di letteratura, Morte nel pomeriggio, spiegava la lontananza della Catalogna dall'amore per i tori, trovandone il motivo nello spirito pratico dei Catalani che li renderebbe lontani da una riflessione costante sul mistero della morte che è il cuore della corrida e sentenziando che la Catalogna non è Spagna.
Eppure in quegli anni le arene di Barcellona erano tre e una di queste oggi si sta addirittura trasformando in centro commerciale.
Chi teme di più gli effetti della votazione di oggi, non ha paura per la Monumental di Barcellona che ormai fa il tutto esaurito solo quando l'idolo moderno, José Tomàs, decide (molto frequentemente, a dir la verità e con il piglio del leader che sceglie la piazza per la propria rivendicazione) di dare memorabili corride proprio fra gli aficionados catalani. Non si teme per Barcellona dove i taurini si nascondono al pubblico (basta girare per i bar intorno alla plaza de toros per accorgersene: gli aficionados si riuniscono nei sotterranei come moderni carbonari). Si teme per il ruolo guida che la Catalogna ha sempre rappresentato nei confronti della Spagna, la funzione d'avanguardia, il traino che potrebbe decidere di una intera tradizione nell'arco di pochi decenni. Del resto, lo spettro dell'abolizione ha sempre rappresentato, tra gli appassionati, un vero e proprio incubo.

Nel libro di Chaves Nogales c'è un intero capitolo in cui si parla della paura, la paura che tutti i toreri hanno, nessuno escluso, la paura che regolarmente precede una corrida.
Sono gli attimi in cui, secondo Belmonte, si sviluppava una sorta di dialogo interno tra lui e la sua inseparabile amica. La paura faceva di tutto per convincerlo a rinunciare e uno degli argomenti si sviluppava così: "In pochi anni, non ci saranno più aficionados né tori. Sei sicuro che le generazioni a venire avranno qualche stima per il valore dei toreri? Chi ti dice che fra qualche giorno non verranno abolite le corride e disdegnata la memoria dei loro eroi? Magari i futuri governi..."

Sarà così? Capiterà questo a una tradizione che in Spagna fu resa popolare a inizio '700 quando, secondo le ricostruzioni, dopo secoli di tauromachia a cavallo, Francisco Romero, artigiano di Ronda, affrontò un toro a piedi, rendendo la sfida dei tori fruibile al popolo e non più soltanto ai nobili possidenti di cavalli? Capiterà questo a una tradizione che, secondo altro tipo di studi, affonda le radici in riti ancestrali, alle origini della nostra civiltà: la sfida dell'uomo al toro, già testimoniata in graffiti preistorici e certo sulle mura di Cnosso, a Creta? Impossibile dirlo adesso. Per ora, mentre il Parlamento catalano vota una legge che ha sollevato nuovamente il dibattito, c'è qualcuno che leggendo Chaves Nogales, senonaltro per ragioni puramente storiche, ricorda i cent'anni del primo toro di Juan Belmonte.
Un uomo che cambiò inesorabilmente l'arte forse costretto da una certa sfortuna di nascita. Piccolo, braccia corte, gambe poco forti, tutto il contrario dei toreri più dotati, Belmonte fu costretto a far quello che gli altri potevano ben evitare: avvicinarsi esageratamente all'animale. Ruppe le regole, le geometrie, invitò i tori a una carica diversa con l'uso sapiente dei suoi polsi e rifiutò qualsiasi teorizzazione della propria tauromachia.
“Si torea come si è” ripeteva, sottolineando che per lui i tori erano la vita; la sfida alla paura la sua costante.
Quando il libro Juan Belmonte, matador de toros fu pubblicato, Belmonte girava ancora per le arene di Spagna, portandosi appresso una borsa zeppa di libri, lui che divorava tutto, da Maupassant a D'Annunzio.
Era un uomo tenebroso e complicato e certo non pensava al futuro, perché come dice lui stesso in chiusura del libro: "io sono nato stamattina".
Non pensava all'incipiente guerra civile, né immaginava come sarebbe finito il suo biografo, in un esilio ingiusto. Né pensava alla sua vita senza tori che concluse quasi trent'anni dopo, quando decise di morire.

Secondo i racconti, uscì presto al mattino, nella sua tenuta, scese da cavallo e affrontò un enorme toro sperando che finalmente un animale potesse avere ragione di lui, ma anche in quell'occasione fu la sua arte a prevalere.
Allora tornò a casa e si sparò nel petto, sulla cicatrice che un corno gli aveva procurato anni prima.
Era il 1962, un anno dopo la morte di Hemingway.
Le corride non erano state abolite, anche se, come diceva Belmonte da anni (e lo stesso Hemingway parallelamente confermava): "la perfezione dell'arte di toreare sta spingendo alla decadenza: il combattimento si convertirà in uno spettacolo da circo, desostanziandosi. Sussiste la bellezza della fiesta, ma l'elemento drammatico, l'emozione, l'angustia sublime della lotta selvaggia si sono persi. E la fiesta inesorabilmente decade."

di Matteo Nucci

venerdì 6 agosto 2010

Aboliamo anche il Palio!




Eh beh c'era da aspettarlo.
Il Fronte Internazionale Walt Disney per Liberazione degli Animali Sofferenti e Vittime dell'Uomo ha individuato il nuovo apocalittico e sadico macello che va messo al bando, vanno castrati i suoi adepti, da affossare senza problemi una tradizione secolare e tremendamente viva.

Il sagace Ministro del Turismo, la Brambillona più famosa per le sue autoreggenti che non per idee o prospettive politiche particolarmente intelligenti, ha deciso: anche noi abbiamo le nostre corride, il Palio di Siena va abolito.
Per rispetto agli animali, i cavalli nello specifico, che lì vengono barbaramente maltrattati.
Repubblica e Corriere.

La questione sarebbe lunga, ma le vacanze finalmente si avvicinano e non abbiamo tanta voglia di affrontarla.
Meglio che il Ministro continui ad occuparsi di lingerie, in ogni caso.

A Siena come prevedibile l'hanno presa bene.

Comunque, come già per la questione catalana e le corride a Barcellona, i numeri di cui si parla non sono certo enormi.
A spanne a una ventina di cavalli verrà risparmiata la terrificante agonia (?) della corsa nella piazza, in quella meravigliosa e straordinaria piazza dove dev'essere bello correre, i muscoli lucidi e tesi, lo sbuffo animale, i colori dei gonfaloni e l'adrenalina della gente, secoli di storia sotto gli zoccoli.
Bravi.

Pensando di fare cosa gradita, come regalino prevacanziero e in omaggio al tema dibattuto, ecco quindi qua sotto la ricetta della picula ad caval: inarrivabile vertice della cucina piacentina, è uno di quei piatti che sono in grado di riconciliare con tutto.
Con i piaceri del palato, con i cavalli che corrono, e con quelli che non correranno più: almeno che uno di loro non finisca tristemente nella tenuta di un qualche forzaidiota, a fare patetica mostra di sé come totem del riscatto dei poveri animalucci maltrattati da noi sadici, ma regali i suoi quarti alle cucine sapienti e ai piatti desiderosi di queste nostre parti.

Ah dimenticavo: si consiglia un rosso fermo, va benissimo un Gutturnio Riserva.



Picula ad Caval

La pícula è un piatto a base di carne trita di cavallo.Per apprezzarlo fino in fondo è consigliabile consumarlo subito. Nella cultura gastronomica piacentina viene sempre servito abbinato alla polenta.

Ingredienti per 4 persone

gr. 400 carne di cavallo macinata non troppo fine,
1/2 cipolla tritata,
1 mestolo di brodo o 1/4 di lt. di vino bianco secco,
gr. 250 pomodori pelati,
gr. 30 lardo pestato,
gr. 200 peperoni,
1 cucchiaio di erbe aromatiche (rosmarino, salvia, prezzemolo, basilico) tritate con 1/2 spicchio d’aglio,
sale,
pepe

Preparazione

Fate soffriggere la cipolla tritata nel lardo pestato, aggiungete la carne e lasciate rosolare a fuoco lento.
Allungate con il brodo (o vino bianco) e fate cuocere a fuoco basso per circa un’ora. Aggiungete i pomodori e i peperoni in precedenza tritati (e senza semi), lasciate cuocere per circa 40 minuti, quindi unite le erbe aromatiche tritate con l’aglio.


lunedì 2 agosto 2010

Pensieri disordinati sul voto di Barcellona




Partiamo da un dato personale ed evidentemente positivo: io continuerò, e con grande piacere, ad andare a vedere corride in Catalogna.
E non già perché voglia farmi beffe delle leggi regionali, me ne guardo bene, ma perché a Ceret, in piena Catalogna, dove il toro è toro e dove i catalani sono Catalans i Aficionados, di corride continueranno a darsene.
Di quelle buone, peraltro.

Il voto a Barcellona non ha niente di politico.
Le pulsioni autonomiste non c'entrano niente, l'abbattimento di un totem dell'ispanità non è in questione: il fatto è che a Barcellona la gente non andava più all'arena, l'aficion è stata negli ultimi decenni mortificata da una gestione ridicola e affarista, che ha purgato la passione locale con anni di corride per turisti, toreri da stampa rosa e torelli da Vecchia Fattoria, quella dello zio Tobia.
Le corride a Barcellona erano tenute in vita con il respiratore artificiale, gli anti non hanno fatto altro che staccare la spina.

Zero.
Esattamente zero è il numero di tori che l'approvazione della ILP salverà da sicura morte.
A spanne un centinaio all'anno invece quelli che, a Monumental sprangata, passeranno direttamente al macello senza godersi la pace del campo e senza combattere per la propria vita.
Chapeau signori abolizionisti.

Antonio Lorca con le sue lacrime di coccodrillo ha ragione su tutto.
Tanto è vero che l'artiglieria pesante del mundillo l'ha subito messo nel mirino etichettandolo come nemico della fiesta, e i taurini di professione attraverso i loro portali prezzolati e emiliofedeschi lo accusano di fare il gioco degli abolizionisti.

La cosa che inquieta, e molto, è che in un paese come la Spagna si possa approvare una legge sfacciatamente liberticida.
Quando c'è un potere, centrale o periferico che sia, che decide e impone cosa sia morale e moralmente accettabile, l'affare si fa serio e allarmante.

L'autonomia non c'entra niente: andare a farsi un giro nei Paesi Baschi, dove la tauromachia è una cosa seria, per rendersene conto.
Là non si sognano nemmeno di buttarla in piedi, un'iniziativa di legge popolare.
Là dove la tauromachia ha conserveto dignità, dove la corrida è parte del sentimento culturale ed esperienziale della popolazione, là dove le corse con i tori non sono state ridotte a chincaglieria kitch da svendere ai turisti di passaggio.
Là dove i tori sono tori.

A memoria, non mi ricordo di nessun picchetto degli animalisti catalani (o di tutti quelli italiani, tedeschi, svedesi e amici vari che hanno esultato alla notizia) di fronte ai macelli suini, bovini, ovini della loro regione.
Lì, per gli animali, gira leggermente peggio.

Il voto a Barcellona è tutto politico.
I parlamentari catalani che hanno approvato la ILP, ci scometto tutto quel poco che ho in banca, la sorte degli animali non l'hanno nemmeno in nota.

Chi ha letto con attenzione, in queste settimane, articoli e dibattiti vari, ha avuto la mia stessa impressione?
Non si è sentita una, dico una, parola sensata provenire da un torero a difesa della fiesta in Catalogna.
A parte Esplà, lucido come sempre, le nostre superstar Juli, Tomas, Ponce, Castella, Perera e compagnia si sono limitati a qualche diplomatica dichiarazione di circostanza.

La Catalogna non è terra di ganaderias.
Dove non ci sono tori nelle campagne, la cultura del toro pian piano scompare.

Il problema è che le cose stanno cambiando
Oggi ciò che conta non è la verità, la sofferenza, la morte, la vita, il sudore, il sangue, il sacrificio, no, oggi ciò che conta è l'asettico, il profumato, l'innocuo, l'inodore.
Oggi gli animali sono quelli di Disney, affettuosi, con gli occhioni grandi, umanizzati.

Di Barcellona ha scritto, come al solito molto bene, anche Gianni Clerici sulla Repubblica.

Come fai a consolidare l'aficion, a creare di nuova aficion, se sottoponi i barcellonesi ad una lunga e massacrante prova di noia e vuoto, con una stagione fatta di dieci-quindici corride la domenica pomeriggio, con toreri glamour e tori senza una sola qualità?
Poi non puoi certo sperare che a contrastare gli abolizionisti ci pensino i giapponesi.

Gridare che la corrida è tortura è un vergognoso insulto a tutti gli uomini torturati su questa terra, oggi e in passato.

Il protagonista della campagna abolizionista, quel signore che ogni volta si tinge di rosso (a simboleggiare il sangue del toro) e che staziona tanto per le vie della città quanto soprattutto davanti all'arena i pomeriggi di tori, tiene sempre nelle mani un cartellone: Stop Animal Cruelty, No More Blood.
Pura catalanità.
Corride per turisti, messaggio per turisti.

Le proibizioni inquietano, sempre e molto.

Quando chiude un'arena, per regio decreto, o strategie imprenditoriali, o carenza di aficion, è sempre cosa triste: la sabbia della Monumental di cose grandi ne ha viste parecchie, e pare che non ne vedrà più.

Ciò che succederà è che nelle terre taurine, a Madrid, in Andalusia, nel Nord, la difesa della corrida si rafforzerà.
In Extremadura pensano ad una fiesta light, meglio che chiudano le arene anche lì, piuttosto.

Un pò di sana dietrologia consiglia di ipotizzare che all'impresario dell'arena, che chiederà un risarcimento di 300 e passa milioni di euro per l'interruzione degli spettacoli, non sia andata così male.
Infatti non si sono viste foto del tipo in questione, nell'atto di strapparsi le vesti o incatenarsi ai cancelli dell'arena.

La morale degli abolizionisti, e degli animalisti in genere, è violenta e prevaricatrice: ciò che non piace a me deve essere impedito agli altri.

Mi immagino già l'ultima corrida a Barcellona, l'anno prossimo: un mano a mano José Tomas/Ponce, con quest'ultimo che si taglierà la coleta proprio lì.
Tori collaboratori, naturalmente.

Burladero riferiva che alla Monumental, nel pomeriggio di ieri, è stato graziato un toro.
Il titolo, naturalmente in bella evidenza, era: Barcellona risponde indultando un toro.
Non hanno capito niente.
Davvero niente.



(foto Ronda -alla Monumental di Barcellona)