giovedì 28 febbraio 2008

Barbudo


Pepe Hillo è stato uno dei toreri più acclamati e celebri di tutto il 18° secolo.
Quando la tauromachia era ancora lontana da quei codici che proprio lui contribuì a definire, in quel Trattato che segnò il lento passaggio alla tradizione moderna.
Ora che la corrida è al suo apice, disse, è arrivato il momento di fissarne le regole.
C'è anche Pepe Hillo nei trentatré quadri della Tauromaquia di Francisco Goya (*).
Era l'11 maggio 1801, a Madrid, nella vecchia plaza de toros della Puerta de Alcalà.
Pepe Hillo era andato, qualche giorno prima, a visitare i tori riservati per quella corrida, la ganaderia era quella di don Luis Rodriguez San Juan
Tra tutti, uno colpì l'attenzione del maestro: uno sguardo fiero sotto due corna serie, un aspetto imponente, il collo un fascio di muscoli tesi e vivi.
E poi nero, nero opaco, nero profondo e senza luce.
Tenebre, senza bagliori.
Negro zaino, dicono gli aficionados.
Il toro si chiamava Barbudo.
Pepe Hillo si avvicinò al mayoral della ganaderia, si rivolse a lui con poche parole: Tio Castuera, questo toro deve essere per me.
A Pepe Hillo piaceva quel toro.
Barbudo.
Il destino fece il suo lavoro e il toro fu assegnato al maestro.
Era, l'11 maggio, una corrida molto importante, di quelle che si celebravano solo a Madrid, di quelle di cui si parla per settimane, prima, e setimane, dopo.
Barbudo era il settimo toro del pomeriggio.
Pepe Hillo ebbe un brivido quando lo vide entrare nell'arena: forse di compiacimento, forse di paura.
Furono dieci minuti di combattimento tra i due, di figure con la capa e di passi con la muleta.
Poi Barbudo uccise Pepe Hillo, lì nell'arena e con il corno sinistro.

(immagine tratta da Wikipedia)

martedì 26 febbraio 2008

Adios, Maestro

Sembrava una persona perbene, Cesar Rincon, a vederlo dai gradini dell'arena.
Sembrava un torero di quella razza strana e inspiegabile, di quelli che amano il proprio mestiere e i tori e per cui toreare è prima un piacere, un godimento, una necessità, poi forse un lavoro.
E' stato il primo uomo che ho visto mettersi di fronte a un toro, armato di un'esile panno rosso e di una fede in qualche cosa che solo lui forse conosceva.
Era la sua la prima spada che ho visto, così sottile e sfrontata di fronte a quel nero ammasso di muscoli e cieca rabbia, quasi ridicola nel suo gesto.
Ebbe ragione la spada, e Rincon con lei.

Una cornata vigliacca, una volta anni fa, gli procurò una malattia dalla quale è difficile tornare: negli anni l'ha combattuta, vinta, ed è tornato, ripartendo da zero come un qualsiasi novillero di provincia, lui che aveva fatto fremere Madrid come forse mai nessuno, lui che aveva aperto quattro volte la Porta Grande di Las Ventas nello stesso anno.
Cesar Rincon.
Un torero con aficion, un torero con tanta aficion da possedere un allevamento di tori e da aver pianto un giorno, in un'arena, quando il presidente non volle vedere che quel toro, quel suo toro insieme al quale lui aveva insegnato a tutti i presenti i canoni della tauromachia più pura e vibrante, era un toro eccezionale, da graziare, da far ritornare al campo.
Il presidente non sventolò il fazzoletto arancione, il toro andava ucciso.
Rincon lo fece, torero, senza nascondere le lacrime.
Piangendo lì, davanti a 10mila persone, spada in mano e muleta nella sinistra.

Due giorni fa Cesar Rincon ha detto addio alle corride.
Venticinque anni di alternativa, segni indelebili in tutto il corpo, e segni indelebili nei ricordi di quei tanti tantissimi aficionados di tutto il mondo che l'hanno seguito e amato.
Rimane per me il primo torero, la porta per l'accesso a questa strana passione.
Il 26 marzo di tre anni fa ad Arles pioveva, il cielo era grigio e gonfio, e Cesar Rincon era vestito di celeste e oro.
Insolente contrasto.
A Bogotà due giorni fa dodicimila persone arrivate da tutto il mondo sono venute a portare l'ultimo omaggio a un torero vero, nei gesti e nell'anima, vero come solo la tauromachia più pura sa essere: e il suo secondo toro dedicato al padre commosso, in un lungo lunghissimo brindis, con una plaza muta e silenziosa, testimone di una liturgia misteriosa e senza finzioni.

Ha detto addio Cesar Rincon, nella sua città, nella sua terra, di fronte ai suoi tori.

Torero.

(foto Ronda - Rincon per l'ultima volta ad Arles, 6 aprile 2007)

domenica 24 febbraio 2008

Omaggio


Queste pagine sono un omaggio.

A una passione, che nasce per caso tre anni fa e da allora cresce giorno per giorno, impetuosa e febbrile e nonostante la sua oscena irrazionalità: ma d'altronde quale peggior ossimoro di una passione razionale poter mai pensare.
A quegli uomini che di questa passione hanno fatto una ragione di vita, a quelli che la vita l'hanno rischiata o giocata per lei, a quelli che hanno sognato di farlo, dai gradini di un'arena o dalle pagine di qualche libro.
A quei tori che sbuffando hanno messo le corna in mille muletas, per rinnovare ogni volta, alle cinque della sera, l'indescrivibile mistero dell'incontro fugace e irripetibile tra la bestia e l'uomo.
A Cesar Rincon, maestro, il primo torero visto in un 'arena (un sabato di marzo del 2005, ad Arles) e che stasera dall'altra parte del mondo, a Bogotà, dice addio a tutto questo.
A tutti gli aficionados conosciuti fino ad ora, gente perbene e ricca nella semplicità, e tra loro qualche amico davvero.
A Campos y Ruedos, occasione ogni giorno di scoperta e godimento, prima ispirazione e autorevole genitore.

A lei che mi accompagna da tre anni in questo imprevisto viaggio che porta là, alla passione più vera e senza aggettivi, e senza la quale nulla sarebbe stato.

Suerte.

(foto Ronda - Beziers 2006)