lunedì 28 febbraio 2011

C'è un film italiano sui tori con Padilla protagonista




E' tutto nel titolo, mi pareva giusto sparare tutto subito: giacché è inutile che gli interessati lo neghino, so perfettamente che tra i lettori del blog si nascondono parecchi ammiratori del ciclone di Jerez, e dunque questa notizia è principalmente per loro.
Peraltro, en passant, nelle ultime occasioni abbiamo visto il basettone ben compreso nel ruolo di responsabile del combattimento, e toreare anche bene soprattutto alla capa.

Ed ecco quindi che scandagliando i fondali della rete salta fuori questo Torero, fra sogno e realtà girato dall'italiano Federico Bruno.
Tra gli attori, appunto, Juan José.
Ne sappiamo ben poco, per ora, non più di quello che si può leggere sul sito del regista.

Ma confidiamo di recuperarlo presto e di parlarvene a breve.
D'altronde un film italiano sul mondo della corrida, con tanto di Padilla di fronte alla macchina da presa, merita la nostra attenzione.

mercoledì 23 febbraio 2011

In un bar a Cuneo


A Ruggero piacciono il vino buono e i tori, e per questo Ruggero è un mio amico.
Oddìo, il personaggio ha tante altre qualità mirabili tra cui una spontanea e affettuosa gentilezza, ma direi che l'amore per il prodotto delle viti e per il prodotto del campo mi avvicina a lui in un modo inevitabile e particolare.

Ruggero un paio di settimane fa va a Cuneo, per lavoro: ci vuole un caffettino, avrà pensato, per iniziare bene la giornata.
Entra in un bar, uno di quei bar anonimi che popolano le città di provincia - vetrinetta dei tramezzini , espositore di patatine e spina della Pepsi, televisione appesa al muro e bottiglie di Averna e Montenegro sul mobile di vetro dietro al bancone, appliques alle pareti per dare la luce - e che qua Ruggero individua alla base di un condiminio, sotto un porticato anni settanta che il baretto condivide con un'agenzia immobiliare, una toeletta per cani e una tabaccheria.

Ruggero prende la sua tazzina e getta uno sguardo al locale per cercare Tuttosport, e con ogni probabilità lo troverà sopra al frigo dei gelati.
Ma oplà, si accorge che davanti a sé sul muro campeggia, tronfio, un cartel taurino.
Ruggero si stropiccia gli occhi, mette a fuoco meglio, ma l'immagine non lascia dubbi: c'è un signore vestito di luci, che con un panno rosso guida la carica di un immenso toro nero, il tutto sovrastato da scritte tronitruanti.

Ruggero dimentica il caffé sul bancone e si avvicina.
E' l'affiche della feria del Riso di Arles, 1978.
10 settembre del 1978, per essere precisi.
Cristo, sul poster c'è proprio tutto: i tori e gli uomini.
Sei cornuti di Marcos Nunez, per Paquirri, El Viti e Manzanares.

La tazzina è ancora lì, Ruggero si deve essere incantato, il manifesto gli ha evocato i ricordi di tanti pomeriggi all'arena, il clamore della festa, la sofferenza sui gradini, le bevute liberatorie a fine pomeriggio.
Si guarda intorno, come per verificare di essere davvero a Cuneo, in un bar di Cuneo, e di non aver allucinazioni da astinenza.
"Ma voi lo sapete chi è Paquirri?".
A Ruggero queste parole escono da sole, ascolta le sua voce mentre snocciola la domanda e si chiede se quella sia proprio la sua di voce, ma la risposta la conosce, sì, è lui che sta parlando, é lui e chi altro, è lui che parla e non sa bene nemmeno a chi.
Il barista, indaffarato ad allestire alla meno peggio il bauletto dei cornetti, alza gli occhi, passa con lo sguardo da quel cliente a quel manifesto, e ancora da quel cliente a quel manifesto.
"Non ne ho mai viste di corride, io, ma mio papà mi parlava sempre di Arles, era lui che ci andava".
Ruggero si volta verso quel ragazzo, e senza dubbio prosegue.
"Paquirri era un torero spagnolo, uno dei più grandi della sua epoca, è morto nell'arena a metà degli anni ottanta".
Gli altri avventori del bar si avvicinano ai due, chi appoggiandosi al bancone, chi rimanendo lì in piedi con le mani dietro la schiena, chi portando la seggiola più vicino: sono otto o nove signori di Cuneo, ormai non più giovani, per usare un eufemismo.
Capelli bianchi, giacche di fustagno dal taglio fuori moda sulle quali hanno la meglio i toni del grigio o del marrone, qualcuno ha gli occhiali e qualcun altro il bastone.
Una piccola migrazione silenziosa e discreta, ma ora quei signori accerchiano il bancone, Ruggero e il manifesto.

Il nostro a questo punto è in trance.
Non è più a Cuneo.
E' a Pozoblanco in una sera di settembre e racconta di quel toro di nome Avispado, di quella tragica cornata alla coscia destra, di quel giro d'onore che la bara fece nell'arena di Siviglia.
E' a Madrid e con le sue parole si aprono per sei volte i battenti della Porta Grande di Las Ventas, le sei volte che Paquirri trionfò su quella sabbia.
Ruggero non è più a Cuneo.
E' alla sontuosa Maestranza sivigliana e poi nella ruspante piazzetta di Tafalla, è nel museo taurino di Bilbao e nelle immensità del campo, dove i tori, lo sapete?, vivono quattro anni nella libertà più assoluta, accuditi ed amati.
E poi arriva ad Arles, certo, e non ci sono più caffé e brioches sul bancone, solo una lunga teoria di bicchieri di pastis, il loro profumo seducente ed ipnotico, lì in fila pronti ad essere giustiziati e subito risorgere.
Ruggero non è più a Cuneo, ora è ad Arles come Paquirri, El Viti e Manzanares in quel settembre del 78, e racconta di quel circo romano, di quella festa per le strade e nelle cantine, dei piatti di riso e toro, dei brindisi infiniti, delle novigliade al mattino e delle corride al pomeriggio, delle migliaia e migliaia di chilometri fatti in tanti anni, Ruggero racconta di Arles e si appassiona, è là, le bande suonano gli ottoni, i ragazzi inseguono e assaltano i torelli sul boulevard, toreri escono in trionfo sulle scalinate dell'arena e toreri escono a piedi, con lo sguardo torvo e basso, ci sono la luce magica della Provenza e i tramonti che infiammano i tetti, la birra nervosa prima di entrare e la birra dolce all'uscita, i saluti, gli abbracci, i picadores che arrivano a cavallo, la messa flamenca della domenica mattina e i tori, dappertutto.
Il manifesto al muro di quel bar quasi si anima, sembra di vedere quella muleta svolazzare, di sentire lo sbuffo del toro, sembra che quel torero sia vivo, sembra di sentire i suoi eh, toro, eh!

Silenzio.
Il barista ha ancora in mano un cornetto, ce l'ha da quando Paquirri ha smesso di vivere, a Pozoblanco.
Quei signori sono lì, ciascuno nella stessa posizione di quaranta minuti prima, solo che qualcuno ora ha la bocca aperta, o il collo allungato per sentire meglio, o le soppracciglie inarcate in un'espressione di curiosità e meraviglia.
C'è silenzio ora, ma sembra si sentire l'eco di un pasodoble, che arriva dalla strada.

Ruggero ora si ricorda di due cose.
Uno, deve ancora bere il caffé: prende la tazzina, la avvicina alle labra, e il liquido nero scende freddo giù per la bocca. Normale, pensa.
Due, a Cuneo ci è venuto per lavoro e non per una conferenza taurina.
Cazzo, è tardissimo.
Raccoglie le sue due cose, si infila alla buona il giaccone e sudato e preoccupato si tasta nei pantaloni per cercare un euro, nel mentre che articola un confuso quant'è?
"Il caffé è pagato!" rispondono in coro i signori. Offriamo noi, vada e non faccia tardi.

Ruggero misura a lunghi balzi la distanza dal bancone alla porta, scappa fuori, è tardi, poi sul marciapiede si ricorda di non aver nemmeno salutato.
Si volta indietro, mette la testa dentro e trova ancora tutti nella stessa posizione, tutti.
E sente uno di quei signori: "...d'altronde Arles è solo a tre ore da qua, neh!"

(uno dei cartel più famosi di tutti, preso da Torocartel)


lunedì 21 febbraio 2011

Duri


Fabio Capello, per il sottoscritto indimenticato e vincente allenatore rossonero (quattro scudetti in cinque anni, tre finali consecutive di Coppa Campioni una delle quali vinta schiantando il Barcellona) è aficionado ai tori.

Da duro qual era, a Capello piacciono i duri.
Victorino Martin, El Fundi, Pepin Liria, El Tato.

domenica 20 febbraio 2011

Tori a Fréjus


Fréjus.
Come il traforo, solo che all'altezza dell'uscita in autostrada c'è un pannello che raffigura un'arena romana.

Non sapevo nemmeno che esistesse, un paese chiamato Fréjus.
Quel nome era saltato fuori un mesetto prima, consultando quei pochi siti taurini che all'epoca facevano capolino dal monitor. Fréjus. Era in programma una corrida in un paese con quel nome, a metà luglio.
Cesar Rincon, El Cid, Castella.
Era il 2005, a marzo avevamo visto la nostra prima corsa di tori e il virus ormai stava inevitabilmente lavorando, non aggressivo ché l'aficion ha raramente la fatalità del colpo di fulmine, ma lento ed inesorabile.

C'era la fila, la gente si accalcava all'entrata per infilarsi nel circo e prendere posto.
C'era il sole e c'era caldo.

Fréjus è la magia dei primi tempi, di quelle corride a cui andavamo con l'innocenza dell'infanzia, di quei tori che inseguivamo come esploratori di terre sconosciute e ignote.
Fréjus è quella signora rotonda e rubiconda, un cappellaccio andaluso in testa, un fiore rosso tra i capelli bianchi e poco curati, che all'ingresso vendeva banderiglie ai turisti e agli aficionados.
Quella stessa signora ne vendeva poi altre, questa volta macchiate del rosso del sangue, all'uscita della corsa.
Fréjus è quella banda che si insinuava tra i tavolini del bar, sotto le frasche, dove uomini e donne e bambini cercavano refrigerio all'ombra e nei bicchieri di birra, quella banda che attaccò una melodia sontuosa ed epica, impossibile non fissarla immediatamente nella memoria.
Vino Griego, la prima volta che ascoltammo Vino Griego.
Tatatataaaaaaaa.
Fréjus è la gente in fila.
Fréjus è quella corrida, la nostra seconda corrida, al buio.
Castella che torea in mezzo alla pista e un gabbiano che volteggia lento sopra la testa del toro.
El Cid incornato.
Fréjus.

Fréjus nel sud della Francia, appena di qua dal Rodano.
La spiaggia si affaccia su quel mare che con i suoi riflessi certifica che siamo sulla Costa Azzurra, il paesino si illumina dei colori e profuma degli aromi tipici e unici di quella Provenza poco lontana da qui.

La prima corrida a Fréjus è stata data nel 1905, sotto le volte della sua arena romana, sorella minore dei circhi di Arles e Nimes: e fu dunque negli anni '50 che la tauromachia nel paesotto ebbe il suo slancio definitivo, e gente come Picasso o Cocteau frequentava assiduamente quella plaza de toros.
L'arena di Fréjus.
Quella stessa arena che giocò un ruolo fondamentale nell'inverno del 1959: si ruppe la diga di Malpasset, ed un'onda di 40 metri si scatenò giù per la valle fino a travolgere la città.
423 morti, che avrebbero potuto essere molti di più se l'arena, quell'arena millenaria, non avesse fatto da barriera spezzando la forza distuttrice di quel mostro d'acqua, proteggendo i suoi cittadini.
Non lo sapevamo, quel 16 luglio del 2005, quando ci siamo seduti su quei gradini alle prime note del paseillo.

Per la stagione 1960, quasi come sentito omaggio, le arene vennero messe a nuove e dotate di una struttura funzionale.
Qui nel '63 Dominguin assisteva ad una novigliada, seduto proprio di fianco a Picasso: Luis Rodriguez lo invitò a mettere un paio di bastoni, il numero uno saltò allora in pista ma cadde malamente e si svirgolò una caviglia. Dominguin tornò nel '72, quando ottenne un buon successo tagliando le due orecchie del suo secondo, che qualche minuto prima aveva dedicato a Romy Schneider, seduta in prima fila.
Nel corso degli anni la città si legò sempre di più alla sua arena, sulla cui pista vennero a esibirsi tutti i migliori toreri e a combattere i migliori tori.
Qui a Fréjus 1968 El Viti fu oggetto di una sonora bronca, e prima di salire sul furgoncino con i suoi subalterni si tolse le scarpette e le gettò: non voleva portare con sé, verso casa, nemmeno un granello della sabbia di quella pista.
Qui si presentò nel '74 Nimeño II, che vide il suo primo noviglio saltare le assi, sfondare una porta e trovarsi fuori dall'arena, sul prato che la circonda. A colpi di capa fu riportato all'interno, e ucciso.
Lo stesso Nimeño II combatté la sua ultima corrida a Fréjus nel 1986: alla sera, chiacchierando di fronte a un bicchiere, disse al chirurgo dell'arena che in effetti loro due facevano lo stesso mestiere. Torero e medico sono là per vincere la morte.

Quel luglio 2005 non sapevamo chi fosse Nimeño II, ma eravamo capitati a Fréjus a vedere una corrida. C'era il sole e Rincon apriva le danze.
C'era Rincon e noi non sapevamo che su quella stessa pista tanti toreri avevano lasciato il proprio sangue: Paquirri, che gravemente ferito alla coscia si rifiutò di andare in infermeria e volle stoccare il proprio toro prima di lasciarsi cadere sfinito tra le braccia dei compagni; Pepe Luis Vargas incornato al ventre nell'83; Stephane Meca che nel 2000, con l'addome aperto da un corno di un Hermanos Peralta, dovette attendere stoicamente l'ambulanza, in ritardo...perché bloccata dagli antitaurini lì fuori.
O infine l'orrore vissuto nel'98 quando Conrado Gil arrivò a un solo passo dalla morte, sotto i colpi di corna di un toro di Pedrosa e lo salvò un miracolo.

Qui a Fréjus passarono El Cordobes e Antonio Ordoñez, Paco Ojeda e Palomo Linares, e i tori di Prieto de la Cal, Palha, Nuñez del Cuvillo o anche Yonnet, Tardieu.
E' su questa sabbia che Palha vide graziare, per la prima volta nella sua storia, un suo toro.
E' qui a Fréjus il 13 agosto del 2006 Juan Bautista graziò un toro di Victoriano del Rio: e in quella stessa corrida Julien Miletto uccise l'ultimo toro della storia taurina di Fréjus.

Dal 2007 le arene sono chiuse, ufficialmente per lavori.
Ma il sindaco oggi ha le idee chiare.
Dopo aver, solo pochi anni fa, ribadito con forza e pubblicamente l'importanza della tradizione taurina per l'identità culturale e storica di Fréjus, monsieur Elie Brun nel novembre del 2010 ha dichiarato alla stampa locale che nell'arena Pablo Picasso (si chiama così dal '64) non ci saranno più corride di tori.
Non pago, qualche settimana dopo e in occasione del tradizionale appuntamento degli auguri natalizi, ad una platea nutrita ha candidamente confessato che "non me ne frega niente delle corride".
Da allora, il club taurino di fréjussien La Lidia ha attivato una vigorosa campagna di denuncia e di azioni per evitare che tutto questo straordinario patrimonio vada perduto per sempre.

Fréjus per noi è quella seconda corrida, quel sole e quella pista, quei tori che non capivamo e pure ci affascinavano enormemente, e quella versione di Vino Griego.
Fa male sapere che non ci torneremo più.


(alla storia taurina di Fréjus, la rivista Toros ha dedicato un numero monografico particolarmente interessante: è il 1895, del gennaio scorso, e quella in alto ne è la copertina)

martedì 15 febbraio 2011

Cos'è toreare




"Torea tutto ciò che sta tra i tori o con i tori. Torea quello che fugge da un toro che incontra sul cammino. Torea il bovaro che separa i vitellini dalla madre, che cambia stalli ai tori, che seleziona una corrida, che la mette da parte, che va e viene tra i tori e con i tori nei lavori quotidiani in allevamento. Torea il lanciere che fa uscire la bestia, la rincorre, la pungola, la ribalta. Toreano quelli che afferrano il vitello durante la marchiatura. Torea il ragazzetto nella festa del villaggio, con la camicia nuova, che rinuncia vedendosi inseguito per rifugiarsi comodamente dietro ai carretti. Torea il pubblico all'arena con gesti e movimenti, grida e applausi, per quello che vede, per quello che avrebbe voluto vedere e per quello che crede debba essere il toreo. Torea l'impresario, torea il presidente della corrida e torea colui che scrive di tori."

- liberamente tratto da Qué es torear?, di Gregorio Corrochano, ed. Bellaterra, 2009 -

(foto Ronda)

domenica 13 febbraio 2011

Saint Martin de Crau 2011


Ebbene sì abbiamo un debole per quelle arene di seconda o terza categoria, in mezzo a paesini minuscoli e sperduti, che ostinatamente mettono il toro al centro della loro programmazione.

Saint Martin de Crau è una di queste: sul sito il programma per la feria di aprile.

sabato 12 febbraio 2011

Perché andiamo a vedere la corrida






Mi chiamo Michele ed ho scoperto per caso il mondo della tauromachia due anni fa durante una trasferta a Siviglia. Da allora per me è stato un crescendo rossiniano tant’è che l'anno scorso mi sono giocato le ferie avendo fatto quattro viaggi (Arles due volte, Bilbao e Ceret) finalizzati a vedere le corride.

Credo che il termine che definisce meglio il motivo per cui mi sono appassionato è emozione.

In esso è inserito tutto ciò che provo e tutto nasce già nella preparazione della trasferta. Dall’organizzazione alla discussione con la moglie ed agli amici, dalla scelta del luogo (a volte casuale ma che sempre, sempre, offre motivi di conoscenza e quindi di crescita e di spunti interessanti) alla scelta di quali corride andare a vedere. Ogni cosa è stimolo ed emozione, dall’acquisto dei biglietti alla birra fuori dall’arena, dall’entrata nell’arena alla condivisione con le persone a me vicine (ora anche mia moglie!).

Per me è sentimento vedere entrare i toreri e tutta la quadriglia nell’arena, vedere uscire il toro e piazzarsi al centro fiero a sfidare tutti, vedere il rapporto che si crea tra torero e toro e tra loro e noi pubblico, per me è emozione e qualche volta brivido lungo la schiena il silenzio prima della stoccata finale, è adrenalina pura una stoccata perfetta, ma è altrettanto emozionante vedere tutta una faena ben fatta, è emozione il coraggio ed il rispetto del torero nei confronti del toro,ma è altrettanto emozionante la fierezza di questi splendidi animali che si rendono conto di essere i protagonisti assoluti.

E’ per questo che il mondo delle corride mi è entrato dentro completamente ed è per questo che sono felice di viverlo.


Michele Saladino



(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)


martedì 8 febbraio 2011

Il toro blu

El Brau Blau è il titolo di un film sorprendente, e per quanto ci riguarda straordinario.
Un solo personaggio e nessun dialogo e nessuna voce, fatta eccezione per quella che da fuoricampo fa capolino un paio di volte; nessuna colonna sonora se non qualche raro passaggio di una ciaccona di Bach, un infinito silenzio, un solo scenario - la casa del protagonista e la campagna lì fuori.
E nenche un toro.

Neanche un solo toro eppure El Brau Blau è un profondo e penetrante omaggio alla tauromachia e al toro: la tauromachia nella sua essenza pura, in una visione ancestrale dell'eterna sfida dell'uomo alla forza della natura, la tauromachia come affare inevitabile tra uomo e toro, come centro e motore della vita e del mondo.
El Brau Blau è la storia di un amore totale per la corrida, tanto forte e assorbente da diventare ossessione: un'ossessione che divora e insieme dà senso sufficiente aòla vita di un uomo, di quell'uomo che con il pensiero per i tori rinasce e che del pensiero per i tori, semplicemente e senza bisogno d'altro, vive.
E' la tauromachia primordiale, come necessità umana prima ancora che come attività umana, culturale o artistica o altro che sia, è la tauromachia come metro e cifra dell'esperienza dell'uomo.

Un film sui tori ma che dei (soliti) film sui tori non ha niente. Nemmeno i tori, appunto.
Ma che tra tante altre cose ha quella lunga, meravigliosa sequenza finale, nel deserto di un'arena di pietre fuori dal tempo, che emoziona ed è autentico gioiello di poesia e passione.

domenica 6 febbraio 2011

Cinque milioni

Premettiamo che quelli del titolo non sono i cinque milioni che chiede la nipote di Mubarak per stare zitta. En passant, esprimiamo tutto il nostro senso di schifo per le vicende del bunga bunga, oltre che la nostra preoccupazione umana per quel povero vecchio malato. E' ora di curarlo sul serio.

I cinque milioni del titolo sono dunque quelli, in lire, che a metà degli anni cinquanta un tale Luigi Carlessi vinse a Lascia o Raddoppia.
Il fortunato concorrente si presentava per rispondere a domande sulla corrida.

Cliccate sull'immagine qui sotto e leggete l'intervista a Carlessi che la rivista taurina El Ruedo pubblicò nel 1957.
C'è dentro tutta la passione di quell'uomo ma soprattutto c'è dentro un altro mondo, un'altra epoca: quella in cui un italiano, pasticciere e panettiere, si abbonava alla stampa spagnola o a riviste messicane e boliviane per avere notizie sempre fresche sui tori. E poi prendeva la macchina e andava a Siviglia o Malaga o Barcellona, in Spagna"tredici volte" in sette anni per vedere "questo meraviglioso spettacolo".
La passione ai tori, quando ancora Ryanair e internet erano fantascienza.
E quando si poteva parlare di corrida in prima serata, da Mike Bongiorno.





(su gentile segnalazione di Marco Coscia)

martedì 1 febbraio 2011

Alcune ragioni

Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo questo contributo, il cui autore risponde al nome di Amadeo Riva Castaneda, aficionado di Milano.
Facciamo nostre le sollecitazioni contenute nel testo e l'invito alla difesa della nostra amata fiesta brava.




ALCUNE RAGIONI PER DIFENDERE LA NOSTRA AFICION ALLE CORRIDE DI TORI

Di anno in anno aumenta il numero di stranieri provenienti da paesi senza tradizione taurina che,visitando la Spagna, si interessano alla corrida: e fra questi tanti italiani. Chi li osserva dall’esterno, può giustamente domandarsi: come è possibile che in Italia persone di buon livello culturale accettino senza incertezze la messa a morte di un animale e che spendano fior di denari per presenziare a uno spettacolo così sanguinario? Ciò è moralmente accettabile? E poi,dal punto di vista etico, è difendibile l’idea che il matador, per concludere il suo lavoro, metta a repentaglio la propria vita?

I moralisti, nei secoli scorsi, hanno sempre condannato lo spettacolo taurino perché l’uomo non deve abbassarsi al livello della bestia.”Oggi” , scrive il filosofo francese Francis Wolff, “la critica si è invertita: il combattimento dell’uomo, degrada l’animale. Le condanne della corrida si fanno in nome del rispetto dovuto agli animali, non agli esseri umani”. Gli animalisti aumentano, di giorno in giorno, la loro influenza sull’opinione pubblica occidentale. Costoro, invero, non hanno bisogno di sforzarsi più di tanto: tutti siamo testimoni di come gli animali siano maltrattati e mercificati: basta vedere in quali condizioni vengono allevati polli e maiali per il consumo umano.

Ma in omaggio al nuovo principio, secondo il quale gli animali sono portatori di diritti, gli animalisti fanno di ogni erba un fascio: nei loro discorsi mettono insieme la caccia, la vivisezione, gli allevamenti industriali e la corrida, non distinguendo, per esempio, fra le condizioni di vita dei maiali (terribili) con quelle dei tori da lidia (le migliori possibili), fra la morte dei tori nell’arena e quella anonima e toccante dei vitelli nei macelli e dimenticando che sebbene un animale non sia una cosa non è nemmeno l’Animale totemico con la A maiuscola, e che non può essere paragonato all’ uomo.

Il toro da combattimento non è una cosa, non è simile all’Uomo e non è, neppure, la vittima passiva degli uomini: il toro è un essere dotato di una singolare personalità, che deve essere affrontato dall’uomo con il rispetto dovuto alle sue peculiari caratteristiche.

Per giudicare serenamente la corrida di tori basterebbe sottoporla al vaglio di due semplici norme morali: subordinare il rispetto dovuto a certi animali (come i tori) a quello dovuto agli uomini e adeguare la nostra condotta alla considerazione che dobbiamo alla loro natura intrinseca .

“La corrida”, sottolinea il professore Wolff, “non solo rispetta questi principi, li concentra”.

Chi osserva il fenomeno (in verità anacronistico) della corrida si pone però un’altra domanda: che senso ha, nel ventunesimo secolo, affrontare un toro per ammazzarlo?Perché un giovane decide di dedicarsi professionalmente a questo strano mestiere? La risposta è questa: i giovani, a differenza dei vecchi, tendono a voler affrontare le situazioni di pericolo nonostante la naturale paura cercando di sovrastarla, rassicurando se stessi e ostentando, se possibile, serenità davanti ai loro amici (nonostante i potenziali imprevisti:la cornata, le ferite, la morte…). Fra questi, i ragazzi che decidono di farsi toreri professionali lo fanno non solo per attirare l’ammirazione di tutti ma anche per conquistare la gloria e (giustamente) la ricchezza.

Ma c’è una ragione ancora più profonda per ammazzare, davanti a un pubblico pagante, un animale: il giovane torero, per consolidare il suo carattere, deve vincere in qualche modo le proprie ansie e, per fare ciò, sfida l’animale più bello e potente che ci sia, il toro da combattimento. “Tu che sei così forte, ammazzami, se puoi!…e visto che non puoi (perché io sono più intelligente di te), sono io che ti ammazzo!”.

E dopo la stoccata mortale, il matador, per un istante, si sente un essere onnipotente...

Ma la corrida non è solo lotta mortale o agonismo come lo fu fino ai primissimi anni deNovecento. Con Juan Belmonte, il rivoluzionario, il toreo (inteso come l’azione che intraprende il lidiador per ingannare, con una cappa o una muleta, il toro) cambia radicalmente. Belmonte non si sposta quando arriva la bestia, come erano soliti fare tutti i toreri fino ad allora, ma inchioda le scarpette nella arena e con un gesto elegante delle braccia fa girare il toro intorno a sé due, tre, quattro, cinque volte. Ed è proprio in quei momenti che il toreo diviene in arte, parola che per definizione significa dare forma umana alla materia grezza (nel caso del torero fornire un senso estetico ai propri movimenti nell’affrontare la carica cieca, istintiva, grezza del toro…).

Attenzione però a un particolare sostanziale: quando dico toro, intendo un animale integro, non sottoposto cioè (come purtroppo succede) a particolari manipolazioni di tipo genetico, farmacologico o meccanico, leggasi, in quest’ultimo caso, le operazioni per l’afeitado (taglio o adeguamento) delle corna.

In questi anni lo spettacolo che ci appassiona è minacciato non solo dalla moderna sensibilità sociale e dalle campagne ideologiche promosse da diversi gruppi politici e dagli animalisti, ma lo è soprattutto dalla miope gestione della fiesta brava da parte di impresari vecchi che conducono i loro affari con metodi ormai obsoleti, interessati soltanto al guadagno; da personaggi provenienti da altre attività che con i loro soldi acquistano partite di vacche e sementales da un famoso allevatore dei cosiddetti tori artisti (cioè docili, miti) per diventare , da un giorno all’altro, ganaderos e potersi pavoneggiare davanti ai loro amici e conoscenti, e da apoderados che consigliano i loro toreri di affrontare esclusivamente i tori di garanzia (leggasi tori non particolarmente resistenti né aggressivi).

Ovviamente in queste condizioni le faenas tendono ad assomigliarsi tutte e a produrre negli spettatori un senso di noia, di spettacolo déjà vu. Il torero che non commuove, che non emoziona rischia di tediare il pubblico.

Se, a questo andazzo, aggiungiamo gli effetti della crisi economica che ha colpito particolarmente la Spagna, già lacerata a causa delle polemiche politiche sul divieto di presentare spettacoli taurini in regioni importantissime come la Catalogna, si capisce perché tanta gente abbia voltato le spalle alle arene e perché lo scorso anno sia diminuito il numero di corride in tutto il paese.

In queste (deprimenti) circostanze, è necessario che gli aficionados ( persone che vivono per la corrida pagando il biglietto, come noi) reagiscano e diventino sempre più esigenti con i "taurini" (i professionisti, coloro che vivono della corrida) per costringerli a restituire alla fiesta brava l’emozione che provoca una faena artistica sì, ma realizzata nei confronti di un toro in possesso di tutti i suoi attributi.

Il torero che effettua movimenti sopraffini davanti a un animale debole (o indebolito…) esegue, caso mai, l’arte della Danza non l’arte del Toreo: il futuro della fiesta brava potrebbe, in questo caso, essere a rischio.

Incalzare, quindi, i taurini é l’ impegno che dovrebbero accollarsi, gli appassionati spagnoli, francesi, messicani, peruviani, italiani, in somma tutti gli appassionati in difesa della loro aficiòn (come ci ha suggerito di fare il Premio Nobel 2010 della Letteratura il saggista e romanziere peruviano Mario Vargas Llosa).

Nel nostro piccolo, diamoci da fare per dare il nostro contributo alla sopravvivenza di questo spettacolo di coraggio, di bellezza e (si spera) di verità.

Amadeo Riva Castaneda


(foto Ronda - Ceret)