mercoledì 31 agosto 2011

Tre corride a Bilbao






Ecco una sintesi, parecchio tardiva, dei tre pomeriggi passati la settimana scorsa a Vistalegre.

Domenica 21 agosto - La leggenda alla deriva

4 gatti di marmo marchiati Miura brutti, vuoti, fiacchi; sostituti de La Campana (2° bis) al diapason con il titolare e di Marques de Domecq (6° bis) il più miura della giornata.
JJ Padilla: silenzio/saluti; Rafaelillo: silenzio/ovazione; Raul Velasco: applausi/silenzio.

Sono passati nove anni dall'ultimo passaggio dei Miura a Bilbao, e visto l'esito di questa corsa è lecito pensare che ce ne vorranno altri trenta prima di rivedere la A coronata sulla sabbia di Vistalegre. Due tori da fazzoletto verde, gli altri quattro mosci, fischiati all'ingresso e all'uscita, mansos ma senza casta, inutili. Quattro buoi per un pomeriggio terribilmente noioso.

Padilla non ha fatto Padilla ed è parso distratto e svogliato di fronte a due tori comunque limitati.
Si è segnalato per valore e coraggio, ancora una volta, Rafaelillo: se la manifesta incosistenza del sobrero de La Campana, uscito per secondo, gli ha impedito di dare senso al suo lavoro, il suo confronto con Primavera (il quinto, di Miura) ha convinto per lealtà e emozione. Una vera e propria lotta quella tra i due, con il toro che durante la faena continuamente cercava l'uomo (per, infine, prenderlo e farlo sanguinare) e Rafaelillo che non vacillava ed anzi si incrociava continuamente, esponendosi e provando a toreare. Macchinoso alla spada, salutava un'ovazione convinta.
Raul Velasco non aveva il bagaglio necessario per affrontare il secondo rimpiazzante (6° bis), il toro migliore della serata, ed è passato per Bilbao senza lasciare traccia di sé.

Tercio de varas non pervenuto, tori protestati all'uscita, pomeriggio noioso.
Stagione disastrosa per Miura, un allevamento ormai alla deriva: pare che i legali di Lamborghini stiano istruendo la pratica di risarcimento per danni di immagine.


Lunedì 22 agosto - La classe di don Diego Urdiales

12 corna astifinissime montate da 6 brutti ceffi di Fuente Ymbro magnificamente presentati, mobili, con comportamenti diseguali ma in alcuni casi parecchio interessanti; in evidenza il primo, ovazionato, e il secondo dal trapìo eccezionale.
Diego Urdiales: vuelta/ovazione; Cesar Jimenez, silenzio/silenzio; Matias Tejela, silenzio/silenzio.

Se sono sei tori così è la corrida del secolo, si saranno detti in tanti; peccato che invece le ottime qualità di Tejedor, uscito per primo e che si accoppiava magnificamente alla disposizione ammirevole di Urdiales, non appartenessero pienamente anche ai suoi colleghi apparsi in pista successivamente.
Due entrate al cavallo con forza e bravura, Tejedor dava subito la possibilità a Urdiales di evidenziarsi in un buon passaggio di chicuelinas. Il successivo quite di Jimenez, quattro veroniche tutte sul corno destro, faceva presagire il leit-motiv della faena: da quella parte Tejedor era una macchina da carica con una nobleza esplosiva e Urdiales lo toreava con eleganza e precisione, facendo suonare la musica dopo pochi passi. La sfida tra i due era vera e appassionante. Ma a sinistra il toro era impossibile e appena preso lo strumento con la mancina, il torero era vittima di una voltereta impressionante fortunatamente senza conseguenze. Faena comunque di valore e ispiratrice di parecchi olé, tutta condotta al centro della pista: uno sfortunato pinchazo privava il torero dell'orecchia meritata, ma il suo giro di pista era parecchio festeggiato. Ovazione per il toro.
Ammirevole per tenacia e impegno Urdiales al quarto del pomeriggio, un manso scomposto e disordinato che fuggiva tutto ma quando prendeva il ferro (dopo la prima picca, alle banderillas e alla spada) pareva svegliarsi e ritrovare fiducia e forza. Saluto al centro per il torero.
Il meglio di Cesar Jimenez è la quadriglia che lo accompagna, e in particolare quel Jesus Arruga che al secondo del pomeriggio metteva un enorme paio di bastoni: per il resto il torero madrileno non era evidentemente nella giornata migliore, pallido e senza idee, indeciso e al di sotto dei suoi due avversari.
Tejela, se possibile, ancora peggio: evanescente.

Un pomeriggio andato in calando ma che ha confermato la buona attitudine e le qualità preziose di Diego Urdiales, un torero che merita altre fortune, e l'attrattiva che hanno i tori di Fuente Ymbro.

Martedì 23 agosto - La delizia del toreo

6 focosi ragazzotti di Nuñez del Cuvillo, alcuni al limite di presentazione, con punte di casta e qualità nei tre tercios.
Morante de la Puebla: saluto/due orecchie; JM Manzanares: ovazione/orecchia; David Mora: ovazione/ovazione.

Buon sestetto di Nuñez del Cuvillo, che ha portato a Bilbao una corrida non grandiosa ma capace di intrattenere il pubblico per tutta la durata della tarde, senza momenti di noia, con tredici picche in totale e parecchi momenti di buona tauromachia.

Morante con il primo del pomeriggio, il peggiore dei sei, si limitava a cesellare con qualche elegante ricamo un lavoro inevitabilmente insufficiente.
Ma il toreo toccava i suoi vertici di poesia e ispirazione e grandezza quando nell'arena entrava Cacareo, che cadeva nelle mani felici di un Morante in stato di grazia.
Faena
storica e arena in visibilio.
Forajido, sorteggiato per secondo, aveva motore e morale e brillava subito in due confronti de poder a poder con Curro Javier, che gli metteva due paia di banderiglie eccezionali e veniva festeggiato con un'ovazione clamorosa. Alla muleta Forajido era una cannonata, e Manzanares non capitolava: anzi, lo aspirava in tre serie a destra impressionanti per precisione di esecuzione e risultato artistico.
Ahimé a sinistra il tono si abbassava, il toro si scomponeva evidenziando problemi che Manzanares non arrivava a risolvere e il torero si deprimeva: la faena, disgraziatamente viste le qualità del materiale, si spegneva. Osso al recibir, e un'intera questa volta all'encuentro: ovazione per l'uomo e ovazione per il toro.
Luminito, il quinto, assaggiava la capa dei tre toreri: Manzanares lo accoglieva con veroniche eleganti che lo portavano al centro, Mora lo festeggiava con un quite di gaoneras, Morante lo scartava con un intervento provvidenziale mentre il toro si lanciava pericolosamente su un subalterno. Proprio nel secondo tercio sarà obbligato a salutare JJ Trujillo della squadra di Manzanares, dopo aver chiuso un terzo paio impressionante.
La faena, benché meno intensa di quella a Forajido, permetteva a Manzanares di mettere in mostra una muleta elegante e capace di ricamare un toreo non perfetto ma di vero gusto: a sinistra in particolare si succedevano alcuni passi di innegabile classe.
Di nuovo un recibir, questa volta efficace, e orecchia. Applausi al toro.
Al pallottoliere David Mora risultava quello meno ricco di trofei, ma questo suo passaggio a Bilbao lo consacrava definitivamente come torero rivelazione e di spessore: serio, valoroso, intenzionato a fare le cose bene e con onestà, Mora ha impressionato per sincerità e capacità.
Asturiano, il terzo della giornata, aveva forza al cavallo: dopo un secondo tercio ben condotto, Mora lo accoglieva con emozionanti passi statuari al centro, per poi strutturare un'opera meritevole che dava distanza e importanza al toro. Asturiano era chiamato da quindici metri, accorreva alle sollecitazioni e metteva soprattutto un corno destro da favola nel panno rosso del torero. Suonava Nerva, la faena procedeva tutta al centro della pista e sulle due corna, con serie di merito e con il torero ad ogni passo più rilassato e sicuro di sé. Chiusura con manoletinas di valore. Uno sfortunato pinchazo, un terzo di lama, due descabellos e una resistenza particolare del toro a lasciarsi cadere complicavano le cose e raffreddavano la platea: solo ovazione per Mora, con un saluto al tercio parecchio sentito.
Currito infine, l'ultimo dei sei, di Nuñez del Cuvillo aveva solo il marchio: il modo di girarsi a fine passo, di aggredire la muleta, di cercare l'uomo, e quella carica brusca e vigliacca rimandavano piuttosto ad altri e più temuti encastes. Confronto aspro quello con Mora, che di nuovo lasciava spazio al toro e lo faceva correre; Currito era un cliente difficile e dopo poco il torero si trovava un corno nell'inguine che gli costava quindici punti di sutura a fine corrida. Ma Mora non retrocedeva e fronteggiava il toro con coraggio e disposizione, il toro si girava rapido come un gatto e lo cercava continuamente, il torero non cedeva terreno, piantava i piedi nella sabbia e lo comandava senza, peraltro, mai farsi disarmare. Faena dunque meno bella di quella al terzo, ma seguita con apprensione e ammirazione dal pubblico. Una mezza efficace piegherà alla fine Currito, ma per il torero (che passerà immediatamente all'infermeria per farsi cucire) non ci sarà più di una calorosa ovazione con saluto.

Nessun toro applaudito all'ingresso ma un paio ovazionati all'uscita, momenti di alto valore artistico e un raro profumo di toreria per tutto il pomeriggio: aficionados eccitati e appagati si assiepavano, all'uscita, ai bar di fronte all'arena.


(foto Ronda -Miura a Bilbao)



lunedì 29 agosto 2011

Vieni, ti racconto una storia




Vieni, ti racconto una storia: e poi dopo seguimi, la racconteremo insieme.
Così ha mormorato Morante a Cacareo, un giorno umido e grigio a Bilbao; il verde foglia del vestito, il colore delle nocciole d'autunno il manto.

Vieni ascoltami, ti racconto una storia.

Bilbao, martedì 23 agosto 2011 - corrida di Nuñez del Cuvillo, quarto toro del pomeriggio: è inevitabile il ricorso alla cronaca, per introdurre e cantare la poesia.
Cacareo, dunque. Dieci minuti di fischi, dieci minuti di olé.

Cacareo è un toro che di Bilbao conosce innanzitutto due cose, il cielo uggioso e la fastidiosa eco di diecimila pitos: entra e perde la mano sinistra, poi vaga per la pista, si sorbisce una prima picca pessima nella schiena, vaga di nuovo per la pista, va a tuffarsi nel cavallo di riserva.
Ventimila mani si uniscono a coppa attorno a diecimila bocche che così ululano e insultano meglio lui, che è davvero terribile, e il presidente, che non fa uscire il fazzoletto verde.
L'autorità ordina invece l'uscita dei picadores e il torero a tradimento gli fa dare una terza razione di ferro, che Cacareo non rifiuta e prende rassegnato e fiducioso, proprio così come si beve una medicina.
Fischi.
Ma a Cacareo i fischi evidentemente non fanno impressione, e continua a fare di tutto per averne in regalo ancora, e ancora.
Tutto grigio plumbeo come il cielo e la pista, e adesso anche i peones sembrano grigi, e le assi e le cappe e la gente, e tutto.
Tutto grigio.

Poi, Morante.

Lasciamo perdere la faena, inutile raccontarla. Impossibile tradurla.
E' poesia, ispirazione, sentimento, e poi illusione, e sogno, e brividi. E' un concerto di musica barocca per toro e muleta, è la vertigine inebriante dei passi in vortice, è il profumo sivigliano di quelle fioriture, è sospensione del tempo. Si annichilisce la ragione, è la dittatura del cuore.
E' il flusso sciolto e imprevedibile della sensibiltà, è l'accoppiamento perfetto e impensabile di uomo e toro, è armonia e virilità.
E' La Gracia de Dios, è l'arte più grande ed eterna.
Non leggetene, non cercatene notizie: non si può cantarla oggi, come non lo si poteva fare una settimana fa all'uscita dall'arena, e non si potrà farlo tra trent'anni.
Lasciamola lì a vivere ancora tra i granelli della sabbia cinerea che ne custodiscono il segreto, e nelle memorie di chi c'era.

Il prima e il dopo, l'inizio e la fine della storia.
In quello, in quello c'è tutto.

Cacareo vaga per il ruedo, il pubblico lo vuole rientrare.
Matias Gonzales, seduto al posto di comando là in alto, lo tiene in pista; Morante, nel suo verde brillante che fa a pugni con il nero della rena, non lo perde di vista un solo momento.
E comincia a raccontare il suo romanzo.
La muleta tenuta nelle due mani, il corpo chinato e basso, le gambe allungate, i movimenti grevi: otto passi con il panno rosso che pesa 542 chili come tutto Cacareo, che piegano e annichiliscono il toro, che confondono una plaza intera. Otto passi per portare la bestia via dalle assi, per sottometterla ed educarla, per raccontarle una storia nuova; otto passi e le braccia che si curvano perché in quella muleta c'è il fardello di tutta Vistalegre e di tutta Bilbao e di tutta la Spagna, c'è la responsabilità della storia intera della tauromachia, c'è l'essenza e il senso della lotta tra l'uomo e il toro e l'inesauribile fede nella vittoria dell'uomo, otto passi e uno sforzo colossale e maestoso.
Il corpo che si flette e si abbassa e si congiunge al profilo dell'animale, lo emula e lo costringe, lo avvilisce e infine si impone, lo umilia, lo persuade.
In due, in due soli in quella cattedrale pagana in cui ora tutti recitano l'alleluja non hanno mai perso la fede: il presidente e il torero.
Gli unici due, certo, a capire cosa sta succedendo e, forse, a capire come proseguirà quella storia.
Tutti gli altri sono folgorati, inebetiti e pure ancora scettici: l'uomo gira per un attimo la schiena al toro e tutti si dicono ecco il Morante che abdica, accorcia, tronca.
Ancora fischi.
Poi, il miracolo.
Morante offre la muleta al corno destro di Cacareo, e il corno destro di Cacareo si trascina dietro Cacareo intero e si abbandona a quell'offerta perché Cacareo è vinto, Cacareo ora è toro, Cacareo dopo quegli schiaffoni portati con le braccia che erano d'acciaio e i polsi che erano vangelo ora è pronto ad ascoltare quella storia.
Sette passi a destra, inspiegabili, e un passo col petto a sinistra.
Morante.

In mezzo, la faena sulle due mani con i molinetes e i pechos e i trincherazos e quel cambio di mano e tutta la liturgia.

E poi la fine, prima della spada.
La muleta brandita a due mani e comandata sopra la testa del toro, ancora quel senso di gravità nei gesti e di assurda pesantezza degli strumenti, ayudados por lo alto che sembrano la copia perfetta di una stampa color seppia di cent'anni fa.
E' la toreria eterna, è la toreria maschia e dominatrice, è l'omaggio e la celebrazione della tauromachia.
Passi con la spada in alto, il corpo obliquo cargando la suerte, la gamba fuori e il mento sul petto, indicando e obbligando l'uscita.

Estoconazo sin puntilla.
Due orecchie.
Estasi.



(foto da Sol y Moscas - Morante a Bilbao, 23.08.11)


venerdì 26 agosto 2011

Corse

Buio

Tafalla, una e un quarto della notte del venerdì 19 agosto o del mattino del sabato 20, non ho mai capito come si debba considerare. Nella piazza del Comune l'orchestra sta suonando Quizas, quizas; una signora verbena niente da dire, uno spettacolo di prim'ordine, e in tanti ballano sul ciotolato della piazza: chi a coppie, chi a gruppi e chi, poveretto, ancora da solo in cerca di una compagna. Va detto che il clima di festa che ha investito la città faciliterà le cose a quel signore, e poco dopo una non più giovanissima donnetta accetterà di accompagnarlo in una rumba che ha un sapore d'altri tempi.
Abiti bianchi, fazzoletti e cinture rosse: sembra di essere in una tavola di un fumetto di Altan, manca solo che esca la Pimpa per completare il quadretto.
L'aria è piacevolmente calda, e beviamo.
Birrette, vino, qualche bicchiere di patxaran adeguatamente rinfrescato da grassi cubetti di ghiaccio. Gente seduta ai tavolini a chiacchierare e ridere, bambini che si rincorrono e si spruzzano alla fontana, le luci del palco, i fiori ai balconi: si sta bene.
La corrida di Prieto de la Cal ha lasciato un sapore amarognolo in bocca, se ne parla davanti al bicchiere di liquore, e intanto la gamba non resiste e ondeggia al ritmo di un cha cha cha.
Serata di festa a Tafalla.
Ma all'una e un quarto la città si ferma: l'orchestra abbrevia velocemente, le giostre interrompono la loro corsa, si spengono le luci dei lampioni, delle case, dei bar.
C'erano i profumi e i colori della festa solo un attimo fa, ora siamo ingabbiati in un buio cupo e rigido.
Ci avviciniamo alle assi che costeggiano il percorso lungo il quale vediamo passare dei poliziotti, mandati a verificare che le strade siano sgombre, e a chiedere a tutti di fare silenzio.
I gendarmi sono gentili ma decisi, non scherzano: fate silenzio per favore.
Fra poco passano i tori.
Le sei bestie che domani mattina correranno l'encierro e che poi nel pomeriggio sfideranno i tre uomini vengono fatte risalire lungo le vie della città fino a raggiungere la corte in cui riposeranno per la notte. L'atmosfera è surreale, magica, per qualche aspetto anche angosciante.
Migliaia di persone in silenzio lungo la via dell'encierrillo, una città ora spenta, l'attesa nervosa.
Ci si sporge, ci si cerca con lo sguardo per darsi conforto, si annusa l'aria: è un momento di primordiale emozione, si aspetta e si patisce la venuta dei cavalieri neri, ci si affaccia sull'abisso della natura bruta e vera, con timore e rispetto.
Poi come in un sogno, annunciati solo da un mormorio frenato e sussurrato della gente, dalla curva là in fondo sbucano.
Sei ombre nere e spettrali galoppano veloci in quel silenzio surreale: sei mostri tetri e vivi avanzano solenni e fendono l'aria, tagliano la città, fermano il tempo.
Il buio li nasconde, il silenzio li protegge , i loro zoccoli sull'asfalto hanno il rumore del tuono, il loro respiro ritma questa cavalcata orrorifica.
Arrivano in fondo, seguono la curva, spariscono in una caverna nera come loro.
Sono entrati, subito le assi del portale vengono serrate e un uomo bianco e rosso, laggiù, alza entrambe le braccia.
Si riaccendono le luci, l'orchestra riprende, i muscoli si rilassano.
Torniamo ai nostri bicchieri.

Alba

Al risveglio lei mi chiede se ho sentito i ragazzi nella camera di fianco: sembra che abbiano deciso di proseguire la festa anche qua nella pensione, tutta notte a fare i cazzoni sbevazzando birra, e ora russano che sembrano un cingolato. Guardo l'orologio, sono le sette del mattino: questa volta sono sicuro, è sabato 20 agosto. No, non mi ricordo dei ragazzi. Non mi ricordo nemmeno di essermi messo a letto: sono passato dallo stato di veglia a quello di sonno comatoso nel giro di un nanosecondo. E' dura, la festa da queste parti.
Scendiamo per azzannare una tostada e bere un caffé al volo: la luce del giorno è soffice, si vede la campagna oltre il cancello del giardinetto, il ragazzo della pensione si scusa ma è di corsa e ci lascia da soli. Indossa scarpette da running, una punta di tensione adombra il suo sguardo, ci sembra pallido.
Usciamo e l'aria è fresca, punge un pò i volti ancora assonnati. In silenzio, ancora con la testa a letto e per non disturbare chi rimane a dormire nelle case, gruppetti di persone risalgono la via principale.
Ci sistemiamo a metà del percorso, arrampicati sulle tavole di legno di noce che proteggono il circuito: fra venti minuti passa l'encierro.
Prima che i tori travolgano tutto ognuno cerca di scacciare la paura, scaricare l'adrenalina, vincere la tensione: ragazze schizzano di qua e di là emettondo gridolini striduli, qualcuno si scioglie i muscoli, qualcuno chiude gli occhi e respira lentamente, molti si abbracciano, si danno il cinque, si toccano. Tutti si toccano, che strano essere che è l'uomo, così inevitabilmente animale.
Esplode il primo razzo, istintivamente in tanti gridano.
Esplode il secondo, ora sono usciti. Stanno già correndo, di sicuro.
Come risucchiati da una risacca, centinaia di ragazzi vengono attratti verso la curva da cui spunteranno le bestie, sembra di vederli schizzare come chiodi verso un gigantesco magnete.
Poi per una frazione millesimale di secondo tutto si ferma, immobile. E' tutto fermo.
E infine tutto esplode.
Quegli stessi ragazzi ora arrivano a ondate, sempre più frenetici e disordinati, e la marea dietro sempre più grande, maestosa, distruttrice. E' lo tsunami.
A spingerla ci sono sei tori, sei bestie spaventose che investono e rovesciano ogni cosa sia a portata delle loro teste: qualcuno li sfida sfiorando con la mano quelle corna terrificanti, qualcuno si getta a terra, qualcuno inciampa, le ragazze gridano.
I tori passano, giganteschi e assoluti: come ogni fiume in piena lasciano dietro di sé solo macerie, qualcuno ha perso una scarpa, un giovane sembra essersi slogato un polso cadendo, tanti sudano. La gente comincia a sudare adesso, a corsa finita, prima non ce n'era il tempo.
Un razzo esplode, ora due.
Sono chiusi dentro l'arena, possiamo riprenderci la città.

Montagna

Mezz'ora di macchina, seguendo la carovana delle altre vetture che subito si incamminano all'esplosione del secondo botto, e arriviamo a Falces. La Navarra ancora sonnecchia, il sole no: comincia a fare caldo sul serio, porcogiuda, adesso picchia. Per inerzia ci accodiamo alla processione di curiosi e autoctoni che si inoltra per le vie del paese, attraversiamo la piazza principale, costeggiamo gli spalti e le barriere di assi, e arriviamo ai piedi di una montagna che si alza in verticale così, all'improvviso, proprio come la cattedrale di Chartres ti appare e ti sovrasta inaspettata alla fine di una viuzza.
Ci sediamo su una collinetta giusto di fronte a quella parete, siamo comodi in mezzo all'erba e con noi altre persone, tanta gente, molte donne. Molte donne, penso, e gli uomini dove sono? Mi giro e guardo meglio l'erta che abbiamo davanti: è solcata da un sentiero irregolare, che la segna come una ruga segna un viso maturo, e attorno a quel sentiero ci sono centinaia di ragazzi e di uomini, migliaia di ragazzi e di uomini. Sono tutti lì, di fronte alle loro donne, aspettano che si facciano le nove. Arriva una banda, si installa alla fine del percorso dove la discesa finisce e si sta finalmente in piano, e attacca un paio di marcette: siamo in Spagna, la festa precede ed esorcizza la paura, la festa dà un senso alla morte.
Sulla cresta più alta si stagliano in controluce i profili dei più arditi, là in piedi a fare da vedetta; qualche famiglia trova posto sulla costa a fianco del percorso, gli adolescenti vogliono avvicinarsi al sentiero, le mamme li riprendono, li agguantano, li tengono in alto.
Sparano la bomba, e la montagna comincia a tremare. Le persone là in cima ondeggiano, sta succedendo qualcosa, poi il serpentone che riempie la mulettiera si scuote, ancheggia, e da là in alto spuntano le prime teste cornute.
Provate a un giorno a ordinare una fila di birilli allineandola lungo una discesa ripida, e sistematevi in alto per lanciare giù una palla da bowling: l'effetto che otterrete è lo stesso che la truppa di vacche sta producendo su questo cordone di pazzi.
Da una parte la montagna, dall'altra il burrone: i corridori vengono giù come disgraziati, costretti in un budello troppo piccolo per contenere loro e l'encierro, in molti scivolano, rotolano, provano ad arrampicarsi per sfuggire a questa valanga brava che li travolge e li porta a valle, formando una nuvola di polvere e corpi e braccia e corna e gambe come se ne vedono solo nei fumetti.
Ci manca solo che venga fuori qualche scritta tipo kapow!
Lo spettacolo è di una potenza indescrivibile, è una montagna intera che crolla, è un paese intero spazzato dalll'energia di quella corsa coraggiosa e suicida.
Passano i primi uomini, passano le vacche, passa tutto il corteo.
Scendiamo verso il paese, in piazza ci aspetta un caffé e un sacchetto di churros appena fatti.



(foto Ronda - encierro a Tafalla e encierro del Pilon a Falces)


mercoledì 24 agosto 2011

Back home






2188 chilometri tra strade asfaltate o polverose, sconosciute alla cartina o rapide e trafficate; trentasei tori e quattro novillos; un fazzoletto blu e tre fazzoletti verdi; mezzo maialino da latte al forno a legna una sera a Segovia; due Miura cambiati, gli altri quattro da dimenticare; un numero imprecisato di cañitas al bancone e di bicchieri di vino; una faena di indescrivibile sogno e bellezza; undici orecchie tagliate e passeggiate lungo la pista; dieci mulini a vento nella Mancha di Cervantes; diciassette descabellos per Oliva Soto a Tafalla; tre recibiendo nel giro di un'ora; un chierichetto che è anche alguacil; un encierro al mattino, un encierro nel cuore della notte, un encierro giù per la montagna; una quantità eccessiva di papaboys per le strade; nove banderilleros chiamati a salutare; un ritratto di Lebowski in una chiesa a Bilbao; una colazione straordinaria e assassina da Alba Reta; una cornata per quindici punti di sutura a David Mora; dodici tori di Osborne lungo il percorso; sette volteretas; due gintonic a Vistalegre; un chilo e mezzo di jamon in valigia.
Poi Morante.

Dieci giorni passano alla svelta.


(foto Ronda - Tafalla)





venerdì 12 agosto 2011

Ferie d'agosto


I ritmi già rallentati, il blog ora si sospende ufficialmente per una decina di giorni per consentire al suo curatore - che pure sarà in ottima compagnia - di andarsene a fare un giretto nelle terre dei tori.
Al nostro ritorno relazioneremo su quanto avremo visto, tra Cenicientos e Chinchon, tra i Prieto de la Cal di Tafalla e i Miura di Bilbao, e poi anche su tutto il resto: mulini a vento, campo, encierros, vino, fuochi artificiali, vaquillas, festa.




mercoledì 10 agosto 2011

Il torero e la piuma d'angelo

Già pubblicato venerdì 5 agosto nella terza pagina de Il Messaggero, poi ripreso da Nicola Lagoia per Minima & Moralia, ecco ora anche sulle Cinque della Sera questa lungo scritto di Matteo Nucci: un pò per il tema del racconto, un pò per il periodo in cui ve lo proponiamo, funge quasi da racconto d'agosto, di quelli che si leggono con calma e con piacere sotto l'ombrellone.


Dominguin e Bosé - il torero e la piuma d'angelo

di Matteo Nucci

La prima volta in cui s’incontrarono fu a Madrid. Lui si avvicinò in punta di piedi – sembrava camminare sul nulla come sanno fare solo i ballerini e i toreri. Lei lasciò che le prendesse la mano e gli sorrise nel suo volto diafano e di una bellezza oltremondana. Chi era lì pensò che fossero già due parti solo materialmente separate di una coppia nata per vivere in un’altra dimensione. In realtà, dopo sorrisi e parole di circostanza, Lucia Bosé si allontanò pensierosa. Le pareva di aver appena conosciuto un uomo di antipatia assoluta: “Uno che recita più di tutti gli attori che ho incontrato” si confidò. “Recita la parte del torero rubacuori, padreterno e fatale”. Pochi giorni dopo già uscivano insieme. Un mese e lui le disse: “Ci sposiamo”. Due mesi e Luchino Visconti salì sull’altare per far loro da testimone.

Aveva ventiquattr’anni, Lucia Borloni, in arte Bosè, quattro meno dell’uomo che sposava. Commessa nella pasticceria Galli di Milano, era stata eletta miss Italia sedicenne e aveva recitato per registi come Antonioni, Soldati, Emmer – la sua carriera nel cinema era lanciatissima. Lui era della più influente famiglia torera di Madrid, sfidava animali fin da quando aveva undici anni, si era dichiarato il numero uno ormai da parecchie stagioni, era stato a fianco di Manolete il giorno della sua morte nell’arena, aveva toreato decine di volte di fronte a Hemingway. Per lei il torero fu il primo. Per lui l’attrice fu l’ennesima, ma stavolta apparentemente fatale. L’amore infatti travolse ogni cosa.

Quando si rividero dopo quella prima volta a Madrid, Luis Dominguin le parve “di una bellezza che lascia senza fiato”. In effetti chi tentava di dominarsi era il torero. Capace per mestiere di dissimulare il sentimento – che sia l’eccessiva confidenza o la temibile paura – fece ricorso al massimo autocontrollo per mantenersi elegante e posato. Le propose di rivedersi con tranquillità. Pochi giorni dopo, la ragazza che aveva resistito a qualsiasi tentazione perse la verginità e rimase a letto con il matador per tre giorni. Stavolta, lui non si alzò subito dopo, come aveva fatto con Ava Gardner, dichiarandole sbrigativo: “Vado a dirlo agli amici”. Né fece quel che aveva fatto con Lana Turner, Rita Hayworth, Lauren Bacall, tanto per dirne qualcuna tra le decine. Lucia diventava sua moglie.

Mentre le innumerevoli amanti perdevano il sogno di conquistare il torero e una di loro, l’attrice cecoslovacca Miroslava Stern, venne trovata morta, suicida, con la foto del matador in mano, casa Dominguin per Lucia divenne un rifugio da tutto e da tutti, anche più di un rifugio. Aveva subito abbandonato la carriera e aveva accettato di non uscire più di casa se non con il marito. Era seguita costantemente da quattordici persone in servizio, pronte a soddisfarne ogni desiderio, pronte anche a evitare che fosse presa dalla voglia di andarsene al parrucchiere da sola.

Vivere con un torero è complicato e Lucia Bosè se ne accorse in fretta. Lo racconta meglio di ogni cosa un altro dei detti celebri di Dominguin: “Ho sul corpo più di cento ferite. Portano il nome delle donne che ho avuto. I tori le conoscevano e ne erano gelosi”. Per una ragazza innamorata, nelle cicatrici che segnano la silhouette perfetta dell’amante, c’è il pericolo della morte che l’uomo ha deciso di sfidare continuamente: quel che può creare in un vero torero “occhi da leggenda: il carisma di chi ogni giorno si gioca la vita”. Ma ciò che della frase di Dominguin non si può fraintendere è la gelosia che gira attorno al corpo del seduttore, una gelosia suscitata, ma anche provata con lo spirito del persecutore. Il mondo di Dominguin, infatti, è un mondo di avvicinamenti e respingimenti diabolici, sottomissioni e rivalse, amore e morte. “Dà più cornate la fame che il peggior toro” si dice in ambiente taurino. Alla Cerveceria Alemana di Madrid in plaza Santa Ana, dove la famiglia Dominguin ha il suo “ufficio”, si preferisce la versione popolare del detto: “Danno più cornate le donne”. Ancora una volta, quell’ostentazione machista tipica della Spagna profonda nasconde ben altre verità: dalle corna dei tori, a quelle di letto, in cui Dominguin certamente eccelle.

Lontana da tutti, la ragazza italiana, caparbia e determinata, soffre senza chiedere compatimenti per le “assenze” di quello che chiamerà sempre e soltanto “il torero”. Finge distacco e fa a pieno titolo la madre dei tre figli che via via le nascono mentre altri, numerosi, ne perde. Con Miguel, Lucia e Paola c’è sempre meno tempo da dedicare alle preoccupazioni. Del resto, la vita mondana della coppia non si è interrotta. Semmai è stata coronata da un’amicizia particolare: quella di un piccolo artista da sempre innamorato della bellezza femminile che a Lucia è stato presentato da Jean Cocteau. Pablo Picasso non dimenticherà mai il primo incontro con la Bosè. Più tardi ne dipinge il volto in una frase: “un perfetto mosaico di ossa”, poi diventa amico del marito, di cui esalta l’arte. Infine diventa padrino del piccolo Miguel che tiene spesso con sé nel suo atelier. L’artista però, per i coniugi Dominguin, non è che l’apice di una vita sulla ribalta. Viaggi ovunque, un aereo privato, la protezione del Generalisimo Franco, weekend a Marbella, Biarritz, Bilbao, amicizie fra i migliori flamenchisti del Paese, ogni tanto un pomeriggio con Salvador Dalì: “esuberante, irresistibile”. I giorni sono scanditi dalle attese e le esplosioni di lusso, le amarezze, i tradimenti, la solitudine. La tenuta andalusa dove Luis Miguel si è messo ad allevare tori è diventato il buen retiro principale, ma ogni reggia di Spagna comincia a somigliare per la ragazza sempre più a una prigione.

Le incomprensioni infine crescono inarrestabili. Ruotano tutte attorno a plazas e letti. Dei tradimenti è meglio non parlare neppure. Dei tori invece non si può fare a meno. A Lucia Bosè la corrida non piace e questo rischia di rivelarsi un crimine più insopportabile di qualunque altra debolezza o rancore. La fine viene scritta a lettere di fuoco. Il matrimonio è durato poco più di tredici anni. La vita però per Lucia semmai ricomincia: pochi mesi e riprende a lavorare. Come attrice, sembra maturata più che se avesse calcato palchi ogni giorno degli anni di lontananza. C’è una donna adesso, non più una bambina, per registi come i fratelli Taviani e Fellini. C’è una madre che riesce a dedicarsi costantemente ai figli – “la cosa più bella che il torero mi ha dato in una storia che è finita come finisce tutto. Come quando sul palco cala il sipario”.

Luis Miguel tornerà a sposarsi. Lucia no. Al torero non consentirà di rifarlo in chiesa, rifiutandosi sempre di ammettere la rottura presso la Sacra Rota. Il matrimonio è una volta sola – su questo la Bosè non ha altra parola. Quel che l’ha resa diversa da tutte le decine di donne di cui i tori erano stati gelosi è un marchio che deve restare indelebile. Più doloroso e più orgasmico di qualsiasi ferita da corrida. Perché l’amore può essere insieme più dolce e più amaro di ogni cosa, proprio come diceva Saffo. Alla fine, resta un disegno perfetto per raccontare quella storia. Esce dalle mani di Picasso. Sono linee sottili e ondulate in una magia tipica solo dei grandi artisti. Pochi tratti che si uniscono in un toro sollevato in volo da due piccole ali. “I tori sono angeli con le corna” disse Picasso consegnando il disegno a Lucia. Lei lo tenne sempre nei propri cassetti. Di sé avrebbe detto: “Adoro gli angeli ma sono attratta dei diavoli”. Del marito avrebbe sentenziato: “Il torero era un diavolo. Ma una piuma d’angelo gli era rimasta attaccata”.

venerdì 5 agosto 2011

Una foto (12)



Mirada.

(foto Ronda)


giovedì 4 agosto 2011

Ivan Fandiño ora pro nobis



Una discussione via mail con un pò di amici aficionados, accalorata e leale e divertente come tutti i dibattiti tra appassionati, si è chiusa ieri sera con questa invocazione straordinaria e sublime, di cui ahimé non sono l'autore : Ivan Fandiño ora pro nobis.

Una giaculatoria di straziante sentimento e indicibile bellezza.

Prega per noi Cristo Ivan: o prega per noi, cristo!, Ivan...prega per tori con casta e per toreri sinceri, per naturali di fronte, per piccate nel moriglio, per stoccate corte e dritte, per banderiglie messe in mezzo e poi uscendo al passo, per un toreo di cintura, per un toreo cruzado, per tori forti e integri e selvaggi, per una muleta messa davanti, prega perché la Verità si faccia viva.

Prega per noi peccatori, folgorati a Las Ventas quel 2 di giugno, peggio che sulla strada per Damasco. Per quei piedi inchiodati nella sabbia, per quel petto sempre offerto, per quella stoffa rossa messa davanti e piatta, per quelle spade senza menzogne.

Prega per noi, tu che nell'icona che apre la tua pagina web appari rassicurante e divino, imponi le mani, pari il Cristo Redentore sulla montagna di Rio de Janeiro.

Prega per noi che noi preghiamo per te, per il tuo agosto caldo che è conseguenza del tuo toreo de verdad e delle tue profezie madrilene: diciassette sono le date già fissate nel mese, e chissà che non se ne aggiungano altre.
Ti incroceremo in un paio di funzioni, forse più, nel nostro piccolo periplo spagnolo: parleremo di te, ti seguiremo, evangelizzeremo.

Agosto sarà il mese del Profeta del Toreo.
Ivan Fandiño ora pro nobis.

martedì 2 agosto 2011

Last minute


Pare che il nostro eroe Matteo Nucci sarà protagonista questa sera di un'intervista che andrà in onda sulle frequenze di Radio Capital.
Pare che la sua voce solcherà gli spazi dell'etere parlando di tori intorno alle 19 di questa sera.
Solo pare, il tutto, perchè le poche notizie che abbiamo ci arrivano a spizzichi e bocconi dalla profonda Andalusia...dunque attacchiamoci alla radio verso quell'ora, e vediamo cosa succede.

lunedì 1 agosto 2011

Aurelio Hernando


"Venite a vedere la piccinina, prima venite a vedere la piccinina!"
"Ma no, non vogliamo disturbare, e poi siamo qui per i tori"
"Hombre, vieni a vedere che meraviglia la piccola!"

Non possiamo declinare, evidentemente, il rifiuto a vedere la piccola non è contemplato.
Riponiamo le macchine fotografiche, slacciamo la giacca, mettiamo dentro i primi timidi passi.

"Sono io! Sono con i francesi: vogliono vedere la piccolina!"

Ah ecco, adesso siamo noi che vogliamo vedere la piccola. Noi nel senso che pure io sono iscritto automaticamente nelle fila del contigente aficionado gallico venuto in visita, in questo caldo mese di marzo qui nella campagna a pochi passi da Colmenar Viejo.
Siamo definitivamente in casa, e mi colpisce il mobile all'ingresso, uno di quei mobili di una volta, che fanno da specchio, portaombrelli, attaccapanni, cappelliera. Ecco, cappelli: ce ne sono appesi almeno venti, forse venticinque, quasi tutte coppole a quadrettini, di quelle che identificano subito il ganadero, il bovaro, l'addetto ai lavori. Ce n'è anche un altro paio, quei cappelli grigi a tesa larga che vanno insieme al traje corto, per i giorni importanti. Un'esposizione orgogliosa di cappelli, giusto all'ingresso, e qualche vorace singulto che arriva dalla stanza lì accanto.

"Forza, venite".
Siamo accompagnati, o meglio trascinati, in cucina. La piccola in effetti valeva la sosta: una topolina di qualche mese, non di più, splendida, avidamente attaccata al seno della madre. Sul tavolo un paio di bicchieri, un biberon e qualche altra cianfrusaglia, un pò di frutta.
Aurelio Hernando, il padre, ha gli occhi che brillano.

Prendiamo il fuoristrada e ci avviamo verso il verde brillante del campo a primavera, passiamo un paio di cancelli e siamo in mezzo ai suoi tori.
Parecchi jaboneros tradiscono le ascendenze veragua, l'aria è frizzante e là in fondo c'è la neve sulle montagne.

Cosa c'è di più grande?, mi chiedo, mentre respiro quei profumi e comincio a fotografare.


- qualcuno di quegli scatti è finito in questa galleria
-
Terredetoros, sempre prezioso, ha una scheda ben fatta su Aurelio Hernando
- l'allevamento ha anche una sua pagina web

(foto Ronda)