A proposito di confronti impossibili, Matteo Nucci ci propone questo interessante parallelo tra Manolete e José Tomas, che subito e volentieri pubblichiamo: l'encerrona di Nimes vista da un'altra e originale prospettiva, a confermare che la tauromachia è capace di suscitare ogni volta mille emozioni e sensazioni diverse.
Buona lettura.
Danza di vita e danza di morte - Il parricidio di José Tomas
di Matteo Nucci
Ci sono sere in cui, dai tori, si esce
trasformati. È accaduto quello a cui aspira ogni incontro fra uomo e animale:
produrre un trasalimento che dà una gioia sconfinata, una sorta di ebbrezza: l’impressione
che la vita possa avere la meglio sulla morte. In quelle sere, i fortunati che
escono dall’arena, in genere tentano di ripercorrere quanto è accaduto, di
risalire alle origini estetiche del loro trasalimento. Chiunque li potrebbe
vedere mentre camminano per strada e ridono, aprono le braccia, bevono, sputano
disperatamente la coccia delle pipas
che si è infilata tra i denti, eppoi cercano di ripetere qualche movimento,
qualcuno dei movimenti magici che si sono manifestati come un dono divino nella
plaza. Se vedete uomini che escono in
questo stato dall’arena, sapete cosa sta capitando loro: sono impegnati in una
delle più impossibili delle operazioni concesse ai mortali: fermare un istante
con cui credono di aver vinto la morte, cercare di ritrovare il movimento
plastico, di inaudita bellezza, quel movimento in cui l’uomo e il toro si sono
uniti perfettamente e che è già scivolato via per sempre, è ormai andato a
finire tra le estasi fuggevoli perse nell’eternità del tempo, è
irrimediabilmente scomparso e non tornerà mai più. Eppure chi esce dall’arena
non vuole saperne. Prova con un natural,
seguito da un altro natural. Un
cambio di mano. Una impressionante chicuelina
seguita da una media che sembrava
tagliare l’aria e annichilire di silenzio ogni cosa. Chi esce dall’arena non
vuole crederci che la corrida sia finita e quella vittoria sulla fine sia
passata e non ci saranno televisioni, video, testimonianze o racconti capaci di
restituirla. Chi è appena uscito dalla plaza
che consacrerà fra i luoghi elettivi di tutta una vita cerca di riprodurre il
gesto, il desplante supremo, lo
sguardo del matador, i due passi di toreria
con cui si è voltato al termine di una serie impressionante. Non ne vogliamo
sapere della nostra mortalità. Non vogliamo accettarla.
Ci sono volte in cui poi uno esce dai
tori e non prova a ripercorrere neppure un movimento perché se ne sono visti
talmente tanti che non si è capaci di ritrovare un solo gesto. Il trasalimento
è stato a tal punto feroce da averci condannato alla consapevolezza. Usciamo
dall’arena sapendo già che tutto quel che abbiamo visto è perduto per sempre e
non lo ritroveremo mai più. Sapendo che dovranno passare anni prima di poter
provare qualcosa di simile. C’è un sorriso stampato sulla faccia di chi esce dall’arena
che è un sorriso inebetito e triste. Come se tutta quella festa, tutta quella
gioia fosse andata a creare un’eternità tale che l’eternità è già finita: siamo
mortali, la nostra festa ha sfiorato le divinità, le divinità non ce lo
perdoneranno.
Per chi va a i tori si tratta di momenti
che creano uno spartiacque, una linea di confine. Questa linea è stata
tracciata tre giorni fa, a Nîmes, nella corrida del mattino, con i sei tori
affrontati in solitario da José Tomás. Passeranno anni e si sprecheranno litri
di inchiostro per tentare di decifrare cosa sia capitato in quelle due ore e
mezzo di estasi. Amanti e detrattori. Critici e idolatri. Nessuno potrà evitare
di confrontarsi con l’argomento perché non c’è dubbio che la storia della
tauromachia ha trovato, nel sole che inondava l’arena romana di Nîmes domenica
mattina, una di quelle tappe epocali, forse simboliche, che scandiscono il
cammino della storia della corrida moderna. Si tratta indubitabilmente del
momento più importante che la breve vita della corrida a piedi ha attraversato
dall’inizio del nuovo millennio. E così stanno le cose, che piaccia o meno
l’arte di José Tomás, che piacciano o meno i tori che ha affrontato, che
piaccia o meno Nîmes e il suo presidente che ha accordato alla mattinata di
tori trofei impensabili altrove: undici orecchie, una coda, un indulto. Il
momento è storico per molte ragioni, oltre alla portata del trionfo torero: il
2012 è stato l’annus horribilis della corrida, numeri mai così bassi
(principalmente per la crisi economica, ma non solo) proprio nella prima
stagione in cui la violenza antitaurina ha spinto al divieto in Catalogna. La
congiuntura economico-culturale è drammatica e non basta la difesa degli
intellettuali. Un grande aiuto per ora, viene dalla Francia e dalla sua
ostinazione, dalla capacità di mostrare la profondità culturale dell’arte
tauromachica a tutti gli effetti, fino a aver inserito la corrida fra i beni
immateriali del patrimonio culturale del Paese. Proprio in
Francia, anziché come era solito a Barcellona, è venuto a chiudere la sua
brevissima stagione (tre corride) il più misterioso e amato fra i toreri
contemporanei, l’unico che fa sempre il tutto esaurito e che porta alle ferias cui partecipa un enorme indotto
economico. La straordinaria corrida di José Tomás è arrivata dunque nella
giornata più simbolica.
Ma saranno altri a raccontare tutto
questo. Ci sarà tempo per inserire la data tra i momenti di svolta della
corrida, da un punto di vista taurino e da un punto di vista politico, da un
punto di vista sociale e antropologico e da un punto di vista filosofico.
Contentiamoci, per ora, di capire almeno un po’ il motivo per cui domenica 16
settembre uscivamo dall’arena romana inebetiti, vinti, distrutti da una
felicità improvvisamente mutuata in tristezza, una specie di assenza e di
vuoto, l’effimero del sublime che già ci faceva mancare la gioia di una
miracolosa vittoria sulla nostra natura finita. Cosa era successo nell’arena?
Le cronache possono raccontarci, secondo
per secondo, la varietà con cui José Tomás ha affrontato i suoi tori. I gesti
con il capote, ogni volta diversi. I
movimenti della muleta, ogni volta
diversi. Le cronache possono raccontarci come il torero abbia conosciuto ogni
volta gli animali con cui si trovava a confrontarsi, la sua fermezza nel voler
penetrare il cosiddetto “mistero del toro”, la sua capacità di accogliere
l’animale e andarne a cercarne subito l’anima per portarla in superficie,
svilupparla, farla crescere fino al massimo delle sue potenzialità. Le cronache
ci raccontano tecnicamente la natura delle cinque stoccate con cui José Tomás
ha ucciso, senza mai sbagliare il primo colpo. Io, però, ora voglio parlare
dell’unica stoccata simbolica, la stoccata mancante, quella che racconta
esemplarmente le altre cinque stoccate, la spada con cui José Tomás non ha
ucciso nessun toro, ma ha ucciso suo padre, il suo padre elettivo: Manolete.
Tutti sanno il rapporto ideale che lega
José Tomás a Manolete. È un rapporto che alcuni sono arrivati a considerare
alla stregua di un’ossessione. Un’ossessione che gira intorno alla morte.
Tecnicamente, per quel che riguarda l’arte, il centro dell’eredità di Manolete
è costituito da quello che in generale viene chaimato “toreo verticale”, ossia
quell’austerità, quell’immobilità longilinea e apparentemente distante dalla
terra, quell’aura ieratica che caratterizza ogni gesto di un corpo che pare
aereo, desomatizzato, quasi spiritualizzato, salvo vederlo sanguinare o volare
dopo il colpo che esso riceve dalle corna di un toro. Nei particolari,
l’eredità del Monstruo si manifesta
nell’esaltazione di movimenti che in altri casi e in altre circostanze sono
valutati come poco significativi, movimenti – sembra un paradosso o un ossimoro
– segnati dall’immobilità: su tutti, l’estatuario
e la manoletina. Si tratta di due suertes che Manolete mutuò dal toreo
comico. La prima, tutta fondata sull’immobilità del fare la statua, nacque dal
gesto ridanciano del celebre Don Tancredo López quando, dipinto di bianco, si
fingeva una statua nell’arena che il toro neppure vedeva. La seconda fu
inventata da Rafael Dutrus detto Llapisera, uno dei più noti esponenti del
toreo comico. Inizialmente erano mosse immaginate per il ridicolo. Con Manolete
esse raggiunsero le vette della tragedia. Il grande torero, per raggiungere
l’altezza tragica del confronto con la morte, deve saper sprofondare nelle
bassezze del ridicolo e del grottesco, per riplasmarle. Manolete e José Tomás
sacerdoti ieratici della tragedia cui giunge chi sprofonda nella commedia.
Questo, stando al toreo nelle sue figure. E del resto, in assoluto, l’eredità
che José Tomás ha colto di Manolete sta proprio nel rapporto profondissimo con
la morte, nella sfida alla morte, nella visione tragica della morte
dell’artista che ha visto il ridicolo della vita, ossia una danza di seduzione
attorno alla morte che non sta soltanto nella ricerca di quella stoccata lenta
e perfetta, con cui l’uomo si offre alle corna del toro per ucciderlo
mettendosi completamente alla sua mercé. È qualcosa che ha a che fare con l’essenza
del mestiere di torero e che semmai abitava già nel detto di Belmonte quando
commentò con una delle sue geniali battute: “Se vuoi toreare dimentica di avere
un corpo”. Il corpo José Tomás lo lascia in hotel, come si ripete spesso
citando una sua risposta, mormorata a mezza bocca quando ancora non aveva
deciso di smettere di parlare al pubblico per sempre. Abbandonare il corpo e il
ridicolo che esso si porta appresso. Al punto che quel corpo José Tomás lo ha
offerto più volte al toro in una sfida totale che ha portato spesso i critici a
accusarlo di un atteggiamento suicida ingiustificato, o addirittura di
tremendismo.
Tutto questo, a Nîmes, è scomparso. E non
tanto perché nell’arena romana José Tomás non si è mai lasciato toccare dalle
corna di uno dei sei animali (come del resto è accaduto nelle altre due corride
della sua brevissima stagione). Ma perché ha ucciso i suoi tori percorrendo una
strada nuova su cui nessuno prima lo aveva visto procedere. È una strada che
deraglia dal corso che la storia della corrida prese quando Manolete decise di
usare una finta spada per gestire la faena.
Reduce da un infortunio al polso, il Monstruo
di Cordoba chiese il permesso di usare un bastone di legno che simulava la
spada ma ne modificava completamente il peso, allontanandosi drasticamente da
quei tre chili che gravavano il lavoro del torero di un carico a volte
fisicamente insostenibile. Era la data di nascita dell’ayuda, la spada che, più tardi in alluminio, ha assistito pressoché
tutti i toreri nel loro lavoro con l’animale prima di usare la spada de verdad
per l’uccisione. Il cambiamento è stato enorme. Non soltanto perché il torero
ha potuto usare uno strumento più leggero. Quanto perché si è creato un momento
di rottura all’interno della perfetta unità artistica della faena, un momento in cui il torero si
ferma, cambia spada, torna nell’arena, mette in posizione il toro con passi di
circostanza, per trovare il terreno giusto e le condizioni e la posizione
dell’animale più adatti alla stoccata. Una lacerazione nella perfetta unità
artistica della faena che domenica
mattina José Tomás ha deciso di mettere in discussione per sempre.
Non è stata una scelta tecnica. Non ha
toreato, José Tomás, con la spada de
verdad, come fa per esempio Juan Mora, osannato autore di una straordinaria
stoccata a Madrid il 2 ottobre 2010, un’uccisione che ha lanciato in piedi
anche i puristi e ha fatto gridare al capolavoro assicurando a Mora una
stagione di contratti e successi ovunque, in cui però il torero non è mai riuscito
a ripetersi. No, José Tomás ha scelto un’altra strada. Ha ucciso il proprio
padre uccidendo diversamente i suoi tori. Mai si era visto un torero mettere
costantemente in posizione l’animale come è capitato domenica scorsa con passi
leggeri, perfetti, passi con cui l’uomo non pensava affatto a spostare il toro
sul terreno adatto o a dare all’animale il modo di mettere in parallelo le
zampe anteriori. Passi con cui il torero danzava attorno al toro, danzava
attorno alla vita. Il suo corpo verticale, austero, ieratico stavolta non era
più un corpo aereo e insussistente. Era corpo in cui riluceva la vita. José
Tomás e il toro. Uomo e animale in un’unità perfetta di derechazos e naturales,
un’unica cosa fino a fermarsi, guardarsi negli occhi un’ultima volta, prima che
il torero non cominciasse a guardare invece il buco degli aghi, l’ hoyo de las agujas, dove inserire la
spada. Dalla danza di morte alla danza di vita. È stato questo, lo spettacolo
sublime, esemplare di tutta la perfezione artistica che ha brillato sul Colosseo
francese. E questa perfezione è arrivata con l’indulto.
Ora, nessuno può mettere in dubbio che
l’indulto di domenica scorsa sia stato esagerato e, secondo le regole
tauromachiche, fuori luogo. Ma all’apice di una festa così esaltante tutto è
comprensibile. E tuttavia, aldilà di questa comprensione dovuta al delirio
della festa, il fatto unico e sconvolgente è che quell’indulto sia arrivato al
termine di una faena che José Tomás
ha lavorato senza spada. Niente ayuda.
Dall’inizio José Tomás ha lavorato il toro con la sinistra, eppoi con la
destra, senza portare con sé in pista la spada. Gli appassionati sanno cosa
significhi. Significa perdere il mezzo con cui il torero può ampliare la
superficie della muleta per farsi
passare il toro più lontano dal fianco destro. Significa fare fuori lo
strumento che cerimonialmente i torero impugna sempre nella destra e che per
questo fa sì che sia chiamato “destro”. José Tomás domenica scorsa con il suo
quarto toro non ha portato la spada di alluminio, ha lasciato nel callejón lo strumento che inventò
Manolete e ha lasciato per sempre dietro di sé il Maestro che gli è stato
padre. Fortuna allora che quando un uomo ha gridato, proprio dopo l’indulto, la
sua richiesta: “El pasodoble de Manolete”, nessuno abbia voluto ascoltarlo e solo
un ragazzo ha ribattuto sarcastico: “el pasodoble di José Tomás!”
Difficile sapere ora su quali strade
andrà il torero di Galapagar. La sua danza attorno alla morte ha cambiato
segno. Molti dicono sia stata la ferita mortale a cui è sfuggito miracolosamente
nel 2010 a Aguascalientes. Molti pensano che sia stato il figlio avuto dalla
sua compagna l’anno seguente. E certo, per i biografi potrebbe essere uno
straordinario segnale: il figlio che Manolete non ebbe mai con Lupe Sino,
l’attrice che la madre del Monstruo, Doña Angustia, odiava e con cui – si dice
– il torero sarebbe fuggito in Messico qualche giorno dopo la ferita mortale di
Linares, il 27 agosto del 1947. Il figlio che avrebbe portato José Tomás al
definitivo parricidio. Ma è inutile tentare la strada delle interpretazioni
psicologiche. Certo, domenica, si è assistito a qualcosa di epocale, comunque
la si voglia vedere. E forse il momento che più lo ha dimostrato è stato un
indulto tecnicamente ingiusto in cui però si è sentita tremare l’ebbrezza
dell’estasi umana quando gli uomini credono davvero di aver vinto la morte
eliminandola dal mondo, anche dal mondo animale, anche dal toro che con la sua
morte, una morte animale non razionale, dovrebbe lasciare all’animale
razionale, l’uomo, la possibilità di trionfare sulla propria mortalità. Senza
spada, il torero ha incontrato il suo toro e lasciando cadere simbolicamente la
spada in terra il torero ha lasciato correre verso le stalle il suo toro. Senza
spade finte il torero ha ucciso il suo Maestro e forse lo ha superato, e certo
se ne è allontanato per sempre. È impressionante, infine, il nome che portava
il toro di Parladé che gli aficionados hanno cominciato a mormorare e ripetere
nel momento stesso in cui l’animale rientrava nella porta del toril. 501 chili, il toro nero ancora
vivo nonostante la morte che si supponeva certa il 16 settembre del 2012 alle
12 e 45, portava sul nero del suo mantello un nome che si fa fatica a
pronunciare tanto è roboante e significativo: Ingrato.
(foto Fiore Galetti)