martedì 31 maggio 2011

San Isidro


E così anche questa San Isidro è arrivata alla fine: tra la sinistra di Talavante e il peligro degli Escolar, la porticina grande di Manzanares e il fracasso dei Partido de Resina e con loro di un bel pò di tori cosiddetti commerciali, e poi la serietà di Sergio Flores e di Fandiño e la buona impressione lasciata dai messicani.
Più un sacco di altre cose, naturalmente.

Per ultimo, Las Ventas riserva agli aficionados il piatto forte: mercoledì i Palha e giovedì i Cuadri.
Val la pena andare a vedere cosa succede.

lunedì 30 maggio 2011

Cambio




A Ceret la frangia più oltranzista e insieme conoscitrice del pubblico, peraltro in un ambiente che già ha le idee chiare, è solita riuscire ad inquadrare un toro già dopo i primi passi, subito all'ingresso dell'arena: e lì se un toro non è perlomeno perfetto, la gente non se ne sta di certo zitta.
Ecco perché a Ceret c'è un'invocazione che risuona minacciosa dalle gradinate, un imperativo categorico indirizzato al presidente e che vale come censura al ganadero, l'evocazione di una necessità senza appello.
Cambio!
Quanti cambio ho sentito a Ceret in questi anni, quanti cambio hanno rimbombato in quell'arena.

Ecco, oggi non mi veniva in mente altra parola per intitolare un pezzo.

Cambio.

domenica 29 maggio 2011

Il toro non sbaglia mai


"La mattina del 16 maggio 1920 a Talavera de la Reina l’aria era mite, il sole ancora obliquo e i giardini del Prado profumavano di gelsomino. Nelle stalle della plaza de toros La Caprichosa, Bailador sembrava il più piccolo fra i tori."

Il toro non sbaglia mai di Matteo Nucci è il libro che gli aficionados italiani aspettavano da tanti anni, perlomeno da quando Volapié è andato fuori edizione.
E' il libro che a noi ha fatto compagnia lo scorso inverno, e che abbiamo conosciuto nel suo trasformarsi; è il libro che volevamo leggere, che volevamo vedere sugli scaffali delle librerie e negli schedari delle biblioteche, di cui volevamo scoprire notizie sui giornali, nelle trasmissioni, alla radio. E' il libro che gli aficionados italiani leggeranno e consumeranno, e poi passeranno ai nipoti, perché chissà, magari un giorno anche loro.

"La mattina del 31 maggio 1931, come spesso capita a Madrid, un’aria fredda scese sulla città dalla Sierra de Guadarrama. Attorno alla plaza della Carretera de Aragón uomini e donne passeggiavano coperti da pesanti cappotti e ignoravano i movimenti attorno all’arena."

Ne Il toro non sbaglia mai, naturalmente, si parla di tori. Lo si fa seguendo le vicende di questo ragazzo italiano che gira il sud della Spagna, arrivato là trascinato da una passione incontenibile ma che necessita di conoscenze ed esperienze, e che a Cadice incontra un torero sulla via del fallimento. Rafael Lazaga Julia, questo il suo nome, guiderà in questo percorso l'italiano che dunque scoprirà alcuni segreti della corrida, rivivrà la storia dei grandi combattimenti e dei grandi toreri, toccherà con mano le contraddizioni di un mondo sospeso tra tradizione e business, affronterà da vicino l’impenetrabile mistero che unisce uomo e toro.

"La mattina dell’11 agosto 1934, Manzanares affondava in una pozza di sole. Le terre bruciate di Castiglia sembravano lande desertiche. Due bambini succhiavano limonate fredde mentre il padre si voltava sorpreso verso l’ingresso della plaza de toros."

Ne Il toro non sbaglia mai il pretesto certo sono i tori, ma il centro di gravità è un altro. Il libro è una profonda e insieme faticosa ricerca intorno al tema della verità, che sì parte dalla verdad torera ma per trascendere velocemente da quella e aprirsi ad una speculazione di più larghi orizzonti. Insomma toros magistri vitae, per Matteo Nucci: è infatti partendo dalle antinomie della tauromachia, dai suoi canoni e dalla sua ontologia, dai suoi aspetti artistici o spettacolari ma insieme tragici o oscuri, che il libro conduce un’indagine sul senso ultimo della verità e della ricerca di essa, sul prezzo che questa ricerca ha per un uomo, sulla necessità della sua attualità.

"La mattina del 30 agosto 1985 a Colmenar Viejo l’umidità aveva schiuso odori che preannunciavano settembre. Dal belvedere della città una coppia di amanti si stringeva la mano prima di salutarsi e intanto, attorno alla plaza de toros già tutto era in movimento."

Il toro non sbaglia mai
è un romanzo, e poi è anche un saggio, e poi è una riflessione filosofica, e poi è un atto d'amore. Ci sono dentro Manolete e José Tomas, Platone e Francis Wolff, c'è la Spagna profonda, c'è la rara capacità evocativa della scrittura di Nucci e tutta la sua passione per la corrida, c'è la vita e c'è la morte.
Ci sono i tori, e dunque c'è tutto.


(qualche altra recensione qua: Il Riformista, Il Venerdì, D Donna)

mercoledì 25 maggio 2011

Ana, acqua e bonbon


Eccolo qua.
E' quel pezzo che manca a chi non conosce, a chi giudica, a chi disprezza.
E' quel pezzo che dice che la corrida è fatta con la carne degli uomini, con il cuore e il sangue degli uomini, con le paure e le gioie degli uomini.
Che la corrida è passione e sofferenza, verità e assolutezza, e soprattutto vita.
La corrida è fatta con la vita degli uomini.

Guardate questo video, i primi cinque minuti: poesia, sentimento, tutto.
Ana Martin è una signora non più giovane, ha i capelli bianchi e un sorriso sincero, e ha visto molte più primavere di quante gliene restano da aspettare.
E' una mamma come tante.
Con la differenza che suo figlio ha scelto come nome d'arte El Fundi, gira le arene combattendo quei tori che i suoi colleghi miliardari si rifiutano anche solo di sentir nominare, e ad Arles quest'anno - con il contagiri che segna 46 anni - ha ucciso Fragata e Canelito, due Miura.
Ana Martin è la mamma del Fundi, Ana Martin va alla plaza ogni volta che El Fundi torea, Ana Martin non guarda la corrida, solo aspetta che la corrida finisca.

Guardate quelle immagini, il volto teso di lei, i suoi scatti, la tensione, e le sue parole schiette e d'altronde così normali: lo seguo sempre, così se gli succede qualcosa io sono lì.
Da piangere.

Ana dai capelli bianchi soffre, prega, vibra, pronta a scattare, soccorrere, accudire.
Ana dai capelli bianchi ogni volta combatte la sua corrida privata.
Ma grazie all'acqua e ai bonbon, il pomeriggio passa.


- visto che siamo in tema, e con incredibile ritardo, a questo link la galleria delle foto prese alla Feria di Arles 2011-


(foto Ronda - Arles)

martedì 24 maggio 2011

Per Marzia





(che non è una dichiarazione, beh insomma per certi versi anche sì e comunque lei capirà, e anche qualcun altro che era là in settembre)

lunedì 23 maggio 2011

La prima volta fu a Jerez de la Frontera

A pochi giorni dall'uscita del suo Il toro non sbaglia mai, Matteo Nucci ci fa l'onore di questo testo pensato e scritto proprio per Alle cinque della sera e i suoi lettori.
E' un prologo al libro, è una confessione, è una chiacchierata tra amici, è un racconto.
E' il perchè de Il toro non sbaglia mai.




La prima volta fu a Jerez de la Frontera


Tutto cominciò definitivamente a Jerez de la Frontera.

Si era nei giorni di apertura della feria. L’hostal “Las Palomas” si andava riempiendo, una piccola folla era nell’atrio ricoperto di azulejos e l’uomo al banco neppure mi vide passare mentre uscivo. Fuori, l’aria era pulita e fresca, era il 13 maggio e per calle Higueras c’era odore di detersivo e dietro un angolo vidi una donna che stendeva il bucato, aveva mani grosse e fianchi larghissimi e si muoveva con grazia e canticchiava qualcosa con un filo di voce arrochita. Sbucai su Plaza de las Angustias e mi sentivo felice. Dietro l’angolo, a destra (allora era una novità, adesso una promessa) c’è un piccolo bar che è poi diventato il mio bar dell’anima. È il bar dove sogno di tornare al mattino quando d’inverno mi sveglio e fa freddo, il cielo è plumbeo e piove. È un piccolo bar senza caratteristiche precise se non che è spagnolo, che è la Spagna profonda e che ci sono quotidiani da leggere e sgabelli dove sedersi e grossi recipienti colmi di margarina da spalmare sulle fette di pane tostato e grossi recipienti colmi di succo di pomodoro e olio per chi preferisce la colazione salata. Lui, il padrone, ha sempre l’aria accogliente al mattino e io quel giorno chiesi una tostada e la ricoprii di margarina, poi ne chiesi un’altra e la ricoprii di pomodoro, intanto sorseggiavo caffellatte e finsi di guardare il giornale, finsi e basta perché quel che avevo di fronte era ben altro. Erano le dita di un uomo che sfogliava le pagine di un libriccino e intanto fumava furiosamente e beveva il suo caffè doppio. Erano le mani di un uomo sulla cinquantina, la pelle dura e nera dei gitani e le dita che sembravano scoppiare negli anelli d’oro, negli enormi anelli d’oro quasi rossastro, ma quando le muoveva, quelle dita – sul libro, sulla tazza, fra i capelli, sul banco metallico, sul filtro della sigaretta, sul pacchetto morbido, sull’accendino – quando le muoveva sembrava che avesse una grazia infinita, un’infinita leggerezza e un tocco sublime. E io lo guardavo e già ascoltavo la musica e sentivo la folla che bisbigliava, il toro che entrava nell’arena, i clarini, i mormorii, gli olé del pubblico, l’odore del toro, il ritmo delle cappe, il fruscio del panno giallo e rosa, la grazia, la grazia infinita davanti alla morte. E fu in quel mattino che capii cosa avrei voluto raccontare.

Più tardi, dall’altra parte della strada, un gruppetto di ragazzi al bar di fronte – un bar più signorile e moderno con seggiolette metalliche fuori al sole – si radunò intorno al fino di Jerez. M’invitarono a sedere con loro e a bere. E mentre bevevano lasciarono che le mani cominciassero a schioccare il ritmo e di nuovo il ritmo ricoprì ogni cosa e il canto flamenco partì e le voci arrotate, vive di una specie di raucedine soffiata, vibranti di emozione, si alternarono sulle mani che battevano e si mischiarono alle risate e al vinito che riempiva i bicchierini sottili e alla felicità della feria che travalicava. E di nuovo era la grazia, la grazia su tutto, la grazia sulla morte che incombe, la grazia sulla paura di vivere e affrontare se stessi, affrontare il toro che sta per uscire dalla stalla. Di nuovo era la folla e gli odori e i suoni e l’arena. E di nuovo era lì, lì, non altrove che andava cercato il segreto, il segreto che rende la corrida un luogo esemplare della sfida di ogni essere umano a se stesso, il luogo da descrivere per scrivere di tori. E se le immagini si andavano srotolando già come una pellicola, poco più tardi incontrai un uomo grosso e forte, buono e burbero, pieno di voglia di vivere, una moglie bella e elegante e le parole dure come pietre. Lo chiamavano El Cabeza, il “testone”, il “faccione”, per via della sua faccia quasi piatta e cinica, vera e scontrosa. Passammo del tempo insieme nella notte della feria di Jerez e il giorno dopo, mentre su Calle Doña Blanca mi aggiravo tra le vecchine che erano arrivate all’alba dalle campagne portando sacchi di lumache da vendere a ogni angolo accanto al mercato, pensai che El Cabeza avrebbe aperto il mio libro dei tori, sarebbe stato il primo personaggio del mio libro dei tori, avrebbe detto in poche parole già tutto quel che volevo dire sulla morte, la grazia, la sfida, la paura e il coraggio. Pensai che El Cabeza sarebbe stato il primo vero personaggio di molti uomini che avrei voluto raccontare, e così è stato.

Sono passati esattamente due anni da quei giorni a Jerez de la Frontera. Il libro è finito e sta per uscire e io non so se quel concentrato di grazia che splende sulla sfida che ogni essere umano lancia a se stesso durante gli anni che gli sono concessi in vita, splenda anche nel libro e riesca a raccontare l’immortalità della sfida dei tori nel suo essere un modello, un paradigma. Non posso sapere se due anni dopo quel mattino la sfida del libro, almeno quella, sia vinta. Però certo il libro è qui e racconta tutto quello che per molti anni ho sentito di voler raccontare. Perché se la prima volta in cui Il toro non sbaglia mai ha cominciato a nascere davvero è stata in quel mattino di Jerez, certo il desiderio, la voglia e quasi il dovere di scrivere di tori erano nati molto prima, davvero molto prima. Perché – intendiamoci – di tori in questo Paese non è per nulla facile sapere qualcosa e per noi italiani presi dal virus dei tori fino a pochi anni fa la vita era davvero dura. Per me, furono anni e anni di corride e di fatiche, quando con gli amici di sempre con cui avevamo deciso di capire almeno qualcosa di quel mistero che è la tauromachia moderna che s’incarna nella corsa dei tori spagnola, cercavamo ovunque suggerimenti, consigli, spiegazioni. Al tempo – ben più di quindici anni fa – non c’era internet e il blog Alle cinque della sera forse non era neppure nella mente degli angeli. Ovviamente, la televisione italiana non trasmetteva corride e in libreria poi non si trovava nulla. Nulla che non fosse Hemingway, certo. C’erano i suoi vibranti racconti, c’era Fiesta e c’era Morte nel pomeriggio. Ma nient’altro. Il libro di Lapierre e Collins sul Cordobés – l’unico altro tradotto in Italia – era da un pezzo fuori commercio, mentre il capolavoro italiano, Volapié di Max David, era sepolto nelle biblioteche da decenni. Nessuno, almeno a Roma, sapeva nulla di corride. Tutti invece erano pronti a condannare. Capire seriamente qualcosa era un’impresa. Scrivere un giorno di tori, allora, era già un dovere.

Scrivere di tori, spiegare la magia dell’arte, invitare a capire la perfezione dell’animale, aprire gli occhi sulla naturalezza della corrida, sulla superiorità della vita che conducono i tori da combattimento rispetto ai milioni di vacche e buoi che quotidianamente mangiamo uccisi nell’orrore dei macelli. Raccontare la bellezza degli allevamenti di tori – vere e proprie riserve naturali che hanno conservato un mondo. Mostrare i movimenti di chi si fa artista di fronte alla morte e quelli di chi invece fugge. Ripercorrere una storia secolare, offrire una possibilità di accesso a un mondo complicatissimo e sacro. Scrivere di tori era un dovere, sì. Soprattutto un dovere. Assaporato poi con il piacere di tutti gli amici incontrati per strada, tutte le persone conosciute e il vino bevuto a una corrida di paese e i panini smezzati da mani pronte a mettere quel che si ha in comune e le parole, le discussioni, le letture, i consigli. Un dovere portato avanti attraverso i paesi e le città di Spagna, gli allevamenti e le plazas de toros, le letture e le case degli aficionados italiani. E ora che quel dovere è compiuto non resta che partire ancora, ricominciare tutto di nuovo, cercare una volta in più una verità irragiungibile, la verità irragiungibile della corrida, la verità irragiungibile del nostro mondo. Non resta che inseguire di nuovo il nostro torero o il nostro toro e soprattutto ricordarsi sempre quel che gli interpreti più appassionati non si stancano di ripetere. “Ognuno ha il suo toro”, ognuno ha la sua sfida da portare avanti, una sfida che non ha fine e non si esaurisce se non nella sfida quotidiana, reiterata costantemente, alle proprie paure e alle proprie debolezze. Saremo pronti a ripartire sempre, insomma. Perché la stagione dei tori non finisce mai.

Matteo Nucci


(foto Ronda)

domenica 22 maggio 2011

Teologia e geometria


Arriviamo con un giorno di ritardo: il 21 maggio, cioè ieri, segnava i vent'anni dalla prima puerta grande di Cesar Rincon a Madrid.
Tagliò due orecchie a Santanerito di Baltasar Iban, e Joaquin Vidal sul Pais titolò "Cesar Rincon sale in cielo". Era la seconda apparizione a Madrid, la prima dopo la conferma dell'alternativa, nel 1984.
Sette anni che non passava di lì, porta grande.
Il trionfo di quel ragazzo colombiano, sostanzialmente sconosciuto, fu così clamoroso e rotondo che l'impresa gli propose di scendere in pista anche il giorno dopo, in sostituzione di un torero infortunato.
Due orecchie in tasca, la stampa che titola a tutta pagina, il telefono dell'impresario che la notte non cessa di suonare: una follia accettare il bis, subito, ventiquattr'ore dopo appena.
Il rischio di rovinare tutto è enorme e stupido è afrontarlo.
Ma Cesar Rincon è sempre stato torero, dice sì, firma, entra nell'arena a piedi e ne esce di nuovo sulle spalle, in trionfo, dopo aver ucciso due tori di Murteira Grave.
Nel 1991 uscirà altre due volte dalla porta grande di Madrid, per la Beneficenza (Samuel Flores, mano a mano con Ortega Cano e vuelta finale per i due e per l'allevatore) e per l'Autunno, in quel 1991 che diventa l'anno che fa da spartiacque tra l'era pre-Rincon e l'era dell'impero Rincon.
Con ieri sono passati vent'anni dalla prima volta in cui il portale di calle Alcalà si spalancò per far passare il conquistatore colombiano.
Per il quarto trionfo di quello stesso anno, Joaquin Vidal concluse questa volta il suo articolo con un definitivo "(Rincon) possiede il toreo puro".

Ora, occorre sapere che Ignatius J. Reilly è stato uno dei più grandi personaggi del XX° secolo.
Senza entrare nei dettagli della sua incredibile vicenda di vita, che pure meriterebbe di essere raccontata anche su queste pagine, per ora basti dire che il suo più grande lascito è quella livorosa indignazione e quell'autentica rabbia che egli nutriva per la totale assenza, nel mondo contemporeaneo, dei principi di teologia e geometria.
Ignatius Reilly dedicò la sua vita a combattere questa pericolosa e inaccettabile deriva.

Teologia e geometria.
Ecco, se penso a Cesar Rincon e al suo toreo, mi vengono in mente queste due categorie.
Teologia e geometria, il toreo puro: liturgia e canoni, rito e ortodossia.
Cesar Rincon era questo, era il toreo essenziale, era teologia e geometria, era dogma e scienza ed anche cuore e passione.

Perché ci vuole fede, per chiamare un toro da venti metri.
E ci vuole Cartesio per farlo girare, metterlo in asse, dominarlo.
Ci vuole aficion infine, cioè cuore cioè passione, per fare questo con un toro bravo, senza mentire, senza trucchi, con verdad.

Cesar Rincon pianse, il giorno del suo addio a Bogotà, pianse nell'entrare a uccidere uno dei suoi tori, con lui piansero tutti gli aficionados che erano lì nella Santa Martia, e con loro piansero in silenzio tutti gli aficionados del mondo.
Ci manca, Cesar Rincon, ci manca il suo toreo puro, e quel suo senso unico per la teologia e per la geometria senza le quali il mondo è peggiore, come diceva Ignatius.


(foto François Bruschet - Cesar Rincon, il giorno di Bastonito)

venerdì 20 maggio 2011

¡Que no quiero verla!



¡Que no quiero verla!

Dile a la luna que venga,
que no quiero ver la sangre
de Ignacio sobre la arena.

¡Que no quiero verla!



- da Llanto por Ignacio Sanchez Mejias, Garcia Lorca -



(foto Ronda - corrida di Scamandre, domenica di Pasqua, Arles)

mercoledì 18 maggio 2011

Da leggere, in italiano

E' capitato a chiunque si sia appassionato ai tori: prima o poi - tendenzialmente prima, o anche subito - arriva inevitabile il momento in cui nasce l'esigenza di conoscere di più, approfondire, sognare.
Ecco dunque che l'aficionado comincia a frequentare biblioteche, spulciando tra gli scaffali più nascosti o tra gli archivi più polverosi, e poi entra compulsivamente in ogni libreria che incroci sulla sua strada, che sia nella propria città o in una qualsiasi località nazionale od estera che egli si trovi a visitare, nella speranza di trovare un libretto di cui nulla conosceva, o ancora fruga in internet, chiede consigli ad altri appassionati, cerca recensioni, segnali, notizie che lo portino a trovare qualcosa da sfogliare.
Qualche libro che parli di tori, che racconti di pomeriggi indimenticabili sulla sabbia di Las Ventas o di quelle estate torride in Andalusia, che narri la vita di un torero o le gesta di un subalterno, che dettagli le suertes, che spieghi, illuda, favoleggi, apologizzi.

Certo, per un aficionado italiano questa ricerca è spesso penosa, fatta di lunghi passaggi in lande desolate ed aride, impossibile come la caccia al Santo Graal, ingrata, faticosa: un sacco di lavoro per recuperare, di tanto in tanto, un qualche misero titolo.
Giacché se sono pochi i testi che parlino di corrida tradotti nella nostra lingua, ancor meno lo sono quelli scritti in italiano: proviamo dunque a farne un elenco di massima, e valga anche come indicazione generale (certo incompleta) a quei lettori che ci scrivono e che ci chiedono - appunto - consigli e titoli.
Inutile dire che chi legga in spagnolo o in francese potrà godere di un catalogo infinitamente più vasto, ma non è questo che qui ci interessa.

Impossibile non partire, nella lista e nelle letture, dai lavori di Hemingway.
Morte nel pomeriggio (*) innanzitutto, la vera porta di ingresso allo straordinario mondo della letteratura taurina, uno scritto a metà tra il manuale e il romanzo e che introduce alle prime e fondamentali conoscenze, una lettura fondamentale per ogni appassionato. Un'estate pericolosa poi, il diario avvincente della sfida lunga una stagione tra il gentiluomo delle arene, Antonio Ordonez, e il suo cognato e rivale Luis Miguel Dominguin.
Fiesta (*) ha una progressione orgiastica ma trasuda di un eccessivo spirito sbruffone e yankee, mentre altri racconti si trovano in un paio di raccolte edite anche qua da noi.

Certo per chi scrive, e a costo di apparire oziosamente campanilista, Volapié dell'italiano Max David (*) è di gran lunga superiore agli scritti di Papa Ernesto: un libro meraviglioso e unico, scritto divinamente, che parla dei tori, degli uomini che li affrontano e della Spagna più profonda, di miseria e trionfi, passione e sangue.
Un capolavoro che ha un unico difetto: è fuori edizione da tempo, e si trova solo in qualche biblioteca comunale o su internet a prezzi non sempre accessibili.

Alle cinque della sera, per la triste tradizione italiana di storpiare tutto lo storpiabile, è il titolo di due libri diversi (!).
Citiamo per prima la raccolta di versi che Garcia Lorca dedicò a Ignacio Sanchez Mejias, un lungo pianto straziante e denso per celebrare il torero e l'amico.
Ma è anche, Alle cinque della sera, la trasposizione fantasiosa di Or I'll dress you in mourning (O tu porterai il mio lutto): gli autori Lapierre e Collins tracciano la storia della Spagna del secolo scorso ripercorrendola attraverso l'epopea del Cordobes, in un libro ben scritto e coinvolgente.

A fianco di questa che è l'artiglieria pesante, troviamo in Italia altri libri dal minore peso specifico ma che ci permettono di tuffarci ancora nelle storie della tauromachia, senza dover tenere un dizionario a fianco.
Specchio della tauromachia di Michel Leiris, ad esempio, che affianca saggio e poesia in un insieme che a dire il vero in ultimo risulta piuttosto barocco; Matador di Barnaby Conrad, un romanzo piacevole ispirato in un qualche modo alla vicenda di Manolete; e anche due opere particolari come L'arte del toreare e la sua musica silenziosa di Bergamin, che vale la pena provare a cercare, e Teoria e gioco del duende (*), ancora di Garcia Lorca, che profuma di arte, gitani, magia.
Di un manuale nella lingua di Dante avevamo già detto qui, di un romanzo intitolato Paloma è tornata (*) parleremo prossimamente.

Insomma cose da leggere ne abbiamo anche, qua in Italia, e questo è solo un tentativo di organizzare un primo inventario: a voi, naturalmente, di integrare con altre segnalazioni.

Ma attenzione, questo catalogo incompiuto ha pure una scadenza, è a tempo determinato.

Sì perché, finalmente possiamo annunciarlo, il 26 maggio prossimo uscirà per i tipi di Ponte alle Grazie Il toro non sbaglia mai di Matteo Nucci.
E sì, lo confessiamo, questo articolo non è altro che il pretesto per arrivare a queste ultime righe e poter dare infine la notizia: del libro di Nucci parleremo ancora, lungamente e ovviamente, per ora siamo felici di fare da megafono.

Dal 26 maggio, Il toro non sbaglia mai.
La lista qua sopra sarà un pò più lunga e un pò migliore.




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domenica 15 maggio 2011

La seggiola flamenca




Il 17 marzo scorso, a Valencia, Morante ha accolto il suo primo toro con un capeo che resterà per sempre inciso nella retina degli aficionados presenti: così ci dice Toros, la rigorosa rivista taurina, i cui cronisti sono soliti fare pochi sconti a tori, toreri e tutto ciò che vedono.
Evidentemente posseduto quel giorno dal demone dell'ispirazione, ubriaco di quel duende che solo i gitani conoscono e che nessun altro, davvero, mai potrà spiegare e capire e provare, Morante si è concesso pochi minuti dopo un lusso raro, una di quelle libertà che solo gli artisti veri si possono prendere e che scolpiscono la storia dell'arte.
Quello stesso toro già banderigliato, le trombe ormai già squillate per annunciare il passaggio all'ultimo tercio, la capa in mano a Morante quasi scottava, vibrava, chiamava.
Così il torero, quando tutti si aspettavano che se ne uscisse dalle assi strumenti in una mano e cappello per brindare nell'altra, tiene con sè invece la cappa, entra di nuovo in pista e chiama il toro.
E gli serve "due chicuelinas d'antologia seguite da una mezza belmontina".
L'arena in trance.
Cose da artisti, da zingari, da geniacci.

Nel preciso istante in cui scrivo queste righe, Morante de la Puebla si appresta a camminare il suo primo paseillo della stagione a Madrid. Nunez del Cuvillo naturalmente, sempre loro.
Chi sa come ripercorrerà quello stesso cammino fra un paio d'ore: se tra i fischi dell'arena o sulle spalle, in trionfo. E chi sa di che umore lascerà gli aficionados, se depressi o estasiati: mai come con Morante la gente va all'arena con un atteggiamento di fede cieca, sperando ogni volta che sia il giorno buono, il giorno del demone, di un singolo e gigantesco gesto, dell'arte sublime, ma mai come con Morante la gente esce dall'arena vuota, delusa, triste anche.

Certo che a Morante una cosa va riconosciuta: il suo toreo è davvero guidato dalla scintilla, dalla folgorazione, dal sentimento del momento; e quando non è giornata non la tira lunga, due passi e se non c'è lo spirito, l'unione, la musa ispiratrice, allora...spada e adios.
Molto meglio così, c'è da riconoscerlo, che non chi accumula passi su passi, decine e decine di passi inutili, per faenas lunghe, meccaniche, insapori.
Ecco, le tre o quattro volte che ci è capitato di vedere Morante eravamo proprio in uno di questi giorni.
Lui e l'ispirazione non si erano dati appuntamento.

Dicono invece che un annetto fa, a Nimes, la giornata fosse di quelle buone.
Morante vede il toro, gli piace, lo ispira. Terminata una serie con la cappa, si ritira nel contropista e chiama il suo valletto: gli ordina di andare in città a cercare una seggiola. Una seggiola? gli fa quello. Sì, una seggiola. Ma che sia una seggiola flamenca. Una seggiola flamenca.
Il ragazzo parte come un fulmine, si infila in ogni bar, in ogni ristorante, e intanto i minuti passano, il toro conosce il cavallo e poi conosce anche le banderiglie. Ma finalmente la seggiola è trovata, il mozo de espadas torna giusto in tempo. Morante la prende, la osserva, gli piace: è di legno verniciata di bianco, con linee sinuose, ricami ed un cuscino di velluto color amaranto.
Inizia la faena seduto su quella sedia, due o tre passi prima di alzarsi, è l'omaggio a Joselito, morto esattamente novant'anni prima e maestro nella suerte de la silla.
La mattinata è di quelle buone, e la faena è di quelle senza tempo.
Fino a quando il toro, nell'impeto, travolge la seggiola, la ribalta. Il ragazzo esce da dietro le assi, e la sistema, la rimette in piedi. Morante lo vede con la coda dell'occhio e si affretta a finire la serie: lascia il toro in mezzo alla pista, si avvicina alla seggiola e con la spada le dà un colpetto, fino a farla cadere di nuovo.
Il toro l'aveva rovesciata, andava lasciata rovesciata.
Finì con due orecchie e la coda, ma conta poco.
Quel gesto di ribaltare di nuovo la seggiola, ecco, Morante è tutto lì dentro.


Inizia il paseillo a Las Ventas, Morante de la Puebla è vestito di verde bottiglia e oro.
Chissà che giornata sarà.


(foto Ronda - Morante a Siviglia, settembre 2009)



venerdì 13 maggio 2011

Annunciazione (riproviamo)



Per ragioni che mi sfuggono, la piattaforma di Blogger si è fagocitata il post di ieri sulla Secondo Ritorno del Messia, e non c'è verso di farselo restituire.
Beh ormai la cosa è di dominio pubblico, José Tomas rientrerà in luglio a Valencia, e poi infilerà una dozzina di corride in arene periferiche, senza televisione, con i Cuvillos eccetera.

Dicevo, José Tomas è l'unico torero di cui non ho mai sentito la voce, all'arena.
Mai un solo eh! toro, eh!.
Un monaco, in silenzio.

(se Blogger mi inghiotte anche questo, allora è chiaro che il problema risiede nell'immagine che qua fa da complemento)

mercoledì 11 maggio 2011

Una foto (10)






(foto Ronda)


domenica 8 maggio 2011

Troppa grazia (o dell'indulto)


Provate a cercare su youtube, o nei siti specializzati, la faena di Manzanares a Arrojado di Nunez del Cuvillo. Arrojado che è il primo toro mai graziato nel tempio del toreo, nella più incantevole cattedrale della tauromachia, in quella Maestranza che è il cuore pulsante di Siviglia, la sua sistole, il suo totem.
Guardatevi quel video e abbandonatevi al polso ispirato di Manzanares: il toreo così è un sogno, è la più alta forma d'arte, è l'eterna bellezza.
Chiunque, là, avrebbe avuto la schiena solcata da brividi.
Chi c'era parla di un clima magico ed estatico all'arena, e di una nottata a Siviglia lunga e indescrivibile, di festa, emozioni, trasporto.

Ora, ancora estasiati, provate a cercare in rete qualche immagine di Arrojado alla picca. Arrojado, il primo toro mai graziato sulla sabbia ocra lambita dal Guadalquivir, non può che essere stato grandioso nei suoi attacchi al cavallo, non può che essersi lanciato due, tre, dieci volte a morire sotto il ferro, deve aver rovesciato la fortezza, scoperchiato il palco, demolito la Maestranza.

Non si trova. Non c'è in giro un video, un solo video di quel toro alla prova delle picche.
Non uno.
C'è qualcosa che non torna.
Un paio di settimane fa abbiamo visto El Juli graziare Pasion, di Domingo Hernandez, al termine di una faena straordinaria, plastica e dominatrice, onirica e maschia.
Pasion era un buon toro, che pure al cavallo si è comportato da toro bravo, e che nella muleta ha messo i muscoli, le corna e il cuore. Ma Pasion non era un toro eccezionale - poteva meritare magari un giro d'onore - eccezionale è stato il torero e l'opera d'arte che è riuscito a scolpire in quella materia. Eppure, fazzoletto arancione.
Ancora, c'è qualcosa che non torna.

Lungi da me voler replicare l'annosa e manichea polemica toristi/toreristi, non è questo il punto. E' che quando l'indultite, questa preoccupante malattia della tauromachia di oggi, fa il salto di qualità e abbandona le arene balneari e festive di terza categoria per andare a inoculare il suo virus nell'aficion delle arene principali di Spagna e Francia, qualche riflessione si impone, anche su queste pagine: qualche pensiero in ordine sparso, senza troppo costrutto, un pò col cuore e un pò con la testa insomma.
Con il desiderio che queste righe possano suscitare dibattito anche qui, come già è sui forum e sui blog di là dalle Alpi e sotto ai Pirenei.

Lasciamo perdere, dicevamo, l'orizzonte della polemica e proviamo a capire cosa sta succedendo.
Diciamo subito che l'indulto di Arrojado, tanto quanto quello di Pasion, sono immeritati e ingiustificati: lo dicono il regolamento, il buon senso e il buon gusto.
Arrojado e Pasion non erano due tori straordinari, e su questo siamo tutti d'accordo.

O forse no, ecco il primo tema, non siamo tutti d'accordo. Stanno forse cambiando a tal punto i gusti e i canoni dell'aficion che oggi un toro straordinario è quello che ripete instancabilmente e meccanicamente nell'ultimo tercio, e poco importa se il cavallo l'abbia rifiutato e delle banderiglie si sia lamentato? Se la risposta è sì, come lo è con ogni probabiità, il problema è serio e reale.
Perché significa che la tauromachia, sotto l'impulso interessato di attori diversi (impresari, toreri, allevatori, professionisti vari), sta negando e lasciando il suo carattere fondativo e necessario di fiesta selvaggia per diventare qualcosa di inevitabilmente diverso, più moderno e light.
Come voler fare la polenta con il gorgonzola usando il philadelphia.
E il rischio è quello di andare alla selezione di animali il cui confine tra residua bravura e genetica predisposizinoe all'ammaestramento rapido sarà sempre più labile, e non si potrà capire se un cuvillino inseguirà la muleta per furia cieca o spensierata abitudine o addiruttura piacevole divertimento.

Chiariamolo subito, nessuno qua è pregiudizialmente contrario alla grazia del toro.
Che è un momento altissimo davvero, ma solo quando l'indulto è giustificato dalle straordinarie doti dell'animale: altrimenti, diventa farsa e soprattutto mancanza di rispetto.
La corrida è eticamente giustificabile, anche oggi nel ventunesimo secolo, solo se di fronte agli uomini vengono fatti correre tori integri e selvaggi e forti. Solo se l'uomo per combatterli e vincerli mette a rischio la propria vita, e solo se la morte di quelli è la celebrazione del coraggio e delle virtù del torero, è la celebrazione della vita.
Ma quando la grazia è accordata ad un toro perché questi permette al torero, con la sua carica composta e dritta, di esprimersi senza preoccupazioni disegnando la faena che in quel momento la sua ispirazione gli detta, allora lo scenario cambia. Si premia un toro perché si fa collaboratore e strumento, dismettendo i panni dell'avversario.
E' la perversione dell'idea di corrida, questa.

A cosa serve graziare un toro? A conservare le qualità eccezionali di quell'animale perché questi possa trasmetterle alle future generazioni, passando il resto della sua vita a riprodursi.
A cosa serve graziare un toro come Pasion? A niente, giacché il suo propietario - il ganadero di Domingo Hernandez - si affannava nei giorni successivi a proporre agli allevatori della zona di Arles di acquistare lo stesso Pasion, che tanto a casa non sarebbe mai stato messo sulle vacche. Per risparmiare i costi di trasporto, anche.
A cosa serve graziare un toro come Arrojado, che contrariamente a Pasion ha fatto il viaggio di ritorno e fra poche settimana potrà debuttare nella sua nuova carriera di stallone? A confortare l'allevatore nella sua ricerca del toreo ideale, ovvero del toro meccanico, a dare una discendenza a questo animale mettendolo nelle condizioni di infondere la vita in tanti Arrojado junior che disdegneranno cavallo, cavaliere e picca e invece galopperanno senza sosta a rincorrere quella seta rossa.

I costumi sono cambiati, si dirà. Certo, i costumi cambiano e sarebbe sciocco negarlo: dopodiché in tauromachia, come in ogni altro dominio, ci sono confini che se superati trasformano inevitabilmente in qualcosa di diverso e anche opposto. Un toro geneticamente selezionato solo per arrivare nobile e ordinato nella muleta, senza più gocce di bravura e senza interesse per il cavallo o indole al combattimento, incontrerà forse i gusti dell'aficion del futuro, ma quello non è più un toro selvaggio. Chiuderlo in un'arena, mettergli di fronte un uomo vestito d'oro e farlo correre dietro a un panno rosso non è più corrida ma gioco. E con i tori non si gioca, con il gattino il pappagallino e il cagnolino magari sì, ma con i tori non si gioca.

Velador era di un'altra epoca si dirà ancora. No. Velador era un toro bravo, come lo era Clavel Blanco che la grazia invece non l'ha avuta, come lo erano i tanti che pure mettono gli zoccoli ogni anno sulla sabbia delle arene, e che su quella stessa sabbia finiscono la vita. Continueranno a morire i tori a Ceret, ma non perchè non meritino una misericordia sivigliana.

Quello che è successo ad Arles con Pasion, che è quello che è successo a Siviglia, è che il pubblico ha chiesto la grazia del toro per premiare il torero, quasi non ci fosse riconoscimento più grande.
Due grandi faenas sono rimaste dunque due opere incompiute, ché solo la spada può dare valore ed eternità al lavoro del torero.
Risparmiare la vita al toro diventa così il grado maggiore di ricompensa per l'uomo, in una schizofrenica identificazione tra qualità del toro, prestazione del torero, trionfo, festa, vita, morte.
Che Arles e Siviglia, plazas con una tradizione seria e consapevole, cadano in questo clamoroso equivoco è un brutto segno.

Infine, ciò che preoccupa maggiormente.
L'indultite dilagante e senza freni, capace di penetrare anche tra le aficion più mature, ci dice che inevitabilmente la mutazione dei costumi della nostra società sta lentamente intaccando anche le sensibilità degli aficionados a los toros. I quali oggi credono di poter espiare quel latente senso di colpa che spesso (non sempre) li pervade, chiedendo ed ottenendo che la vita di un toro sia risparmiata: è l'animalismo spicciolo e metropolitano e stupido del ventunesimo secolo che pian piano arriva anche all'arena, è la certificazione che anche gli appassionati ai tori non sono immuni da questa trasformazione della sensibilità comune per cui gli animali sono al pari degli uomini, hanno sentimenti e diritti e volontà, sono i nostri amici a quattro zampe, parlano e soffrono come noi. E dunque si chiede l'amnistia, l'indulto, la vita.
Non si potrebbe cadere in equivoco maggiore. Per ragioni tecniche, innanzitutto: un toro graziato soffre molto di più di un toro ucciso all'arena, al termine di quei venti minuti di combattimento, e soffre per le cure, la riabilitazione, il trasporto, il reinserimento al campo.
Ma soprattutto, per ragioni etiche. Si selezionano generazioni di tori capaci di lasciarsi toreare, di non dare problemi, di non disturbare la digestione dei sivigliani, arrivati all'arena dritti dritti dalla feria dove fino e gambas hanno riempito la pancia; si prendono sei di questi tori e li si porta alla plaza de toros, dove vengono piccati e banderigliati e poi fatti correre dietro alla muleta per venti minuti. E poi si decide di graziarli, che tornino all'allevamento, che ci pensi il ganadero.
Ci ha fatto divertire, ci siamo emozionati, la faena è stata artistica, grazie e arrivederci se ne torni pure a casa. E ci scusi se per i nostri olé l'abbiamo dovuta ferire.
Questo è maltrattamento animale. Uccidere un toro in un'arena, esponendosi a rischio della propria vita, al termine di un combattimento è la forma obbligata di rispetto, è l'essenza e la ragione della corrida, è amore per il toro.
Giocare con un toro è l'esatto contrario.

Certo, la notte sivigliana di chi era alla Maestranza sarà stata lunga e magica, e la sera nelle bodegas ad Arles gli aficionados toreavano mimando i passi del Juli.
Chissà quanti si ricordeanno, fra un anno, il nome di quei due tori.


(nell'immagine, Indulto di Stéphanie Medieux)


sabato 7 maggio 2011

Mano a mano ganadero


L'ineffabile Casas ne ha inventata un'altra delle sue.
Già nelle sue arene è difficile, nell'intera temporada, assistere a corride formali: tra corride miste con un cavaliere e due toreri o due cavalieri e un torero, mano a mano tra allevamenti, ganaderias annunciate e poi sostituite, confirmaciones e corride dell'addio, l'aficionado ai primi passi potrebbe trovarsi perlomeno disorientato...

Oggi a Valencia, annunciato da proclami tronitruanti, va in scena (cito) "il primo confronto ganadero della storia della tauromachia".
Tre tori di Miura e tre di Victorino, i due ferri con più blasone e fama, sfileranno sulla sabbia valenciana in questo match posticcio di cui non si è capito bene il fine.
A Nimes tra un mesetto è programmato il turno di ritorno, chissà magari chi passa va in finale.

In ogni caso, a dispetto dell'ennesima casaserie (come dicono in Francia) e soprattutto dello stato attuale dei tori delle due casate, il pomeriggio ha qualche indiscutibile interesse.

Per chi ha il satellite è possibile vedere la corrida in diretta su TeleMadrid, chi è senza parabola può arrangiarsi (credo) guardandosela su internet a questo indirizzo.

venerdì 6 maggio 2011

La linea di Osvaldo Cavandoli






E non ditemi che un pò non vi commuove.


(per chi fosse troppo giovane per commuoversi: qua)




giovedì 5 maggio 2011

Pubblicità Progresso


Si clicca sull'immagine e si vede il cartel della féria di Ceret 2011.

mercoledì 4 maggio 2011

Perché andiamo a vedere la corrida





Bellezza, Profondità, Mistero: di queste tre colonne portanti dello Spirito, la corrida de toros rappresenta un culmine.

Avevo quindici anni, quando, a Madrid, andai alla mia prima corrida; ricordo vividamente quali furono le mie reazioni di allora: provavo una sorta di ebbrezza, mi sentivo la mente leggera e, al contempo, troppo piena; ero conscio di avere assistito a qualche cosa di unico, di inimmaginabile, non uno spettacolo umano, ma una visione trascendente. In nessun modo il sangue, la morte mi impressionarono; semplicemente, ciò che avevo visto li spiegava, li rendeva necessari.
Io credo di essere nato per essere un aficionado. Però, come succede, le cose andarono diversamente... Vidi altre tre corride durante gli anni dell'università. Poi il lavoro, la famiglia, le figlie piccole,altri interessi e amicizie... per farla breve, sono rimasto trent'anni (!) lontano dalla Spagna e dalle plazas de toros. Ma ora ritorniamo alla colonne portanti.

Bellezza.

Tutto nella corrida è maestosa bellezza, tutti i suoi elementi sono vertici di estetica, attingono alla fonte del sublime. Il toro, le sue esplosioni di forza, la sua bravura, i suoi muscoli, le corna tremende; il torero, il traje de luces, la cuadrilla, i cavalli bardati dei picadores; le luci della sera estiva, l'atmosfera della fiesta fuori della plaza; il pubblico stesso, quando è numeroso, entusiasta e competente. E' il sublime che penetra l'anima. E poi ci sono le azioni della lidia. In questo mondo contemporaneo, la corrida è rimasta l'unica attività umana che ha come fine precipuo la creazione della bellezza. L'arte vi ha da tempo rinunciato. “Oggi l'arte più è brutta e più è preziosa” recita la saggia battuta presa dal grazioso film Fuori Orario. Come descrivere quanto è bello un passo? La potenza della carica del toro, la suprema eleganza del movimento della muleta o del capote, i due corpi, dell'uomo e dell'animale selvaggio, che, per un lungo istante che sembra dilatarsi nel tempo, formano un’unica massa plastica. Un poeta spagnolo sostiene che l'opera del torero è poesia: il singolo pase è il verso isolato, cristallo di pura bellezza, la ligazon è la strofa, che dà senso e armonia ai versi, la faena l'intero componimento. E che dire di una peculiarità estetica che si ritrova unicamente nella corrida: la sua fotogenia. Le fotografie dei passi sono sempre stupende, e danno una precisa misura della classe di un torero. Ciò non succede in alcun'altra forma artistica; si possono forse giudicare violinisti o pittori dalle loro immagini mentre suonano o dipingono?

Profondità.

Il sentimento della profondità è forse ciò che maggiormente penetra nell'anima, partecipando al rito della corrida. In essa si ritrovano le qualità più profonde e più nobili dell'essere umano, il coraggio, l'onore, il desiderio e addirittura l'ansia di creare qualcosa di bello e di grande, a costo di sopportare il dolore e di sfidare la morte, la generosità nell'offrire agli altri, al pubblico, i frutti della sua arte. Quale altro artista, oltre al torero, rischia la vita per la sua opera? Dinnanzi all'uomo si aprono gli abissi feroci della Natura, rappresentati dalla belva che vuole uccidere, indistintamente, tutti gli esseri che incontra sul suo cammino, sempre, sino agli ultimi istanti del combattimento, che difatti sono i più pericolosi per il matador. Persino i gesti, gli atteggiamenti del torero, quello che si può definire l'esibizionismo dell'uomo, la toreria, il desplante, hanno un significato profondo, forse collegato alla gioia di essere ancora vivo, oppure ad altro, ancor più celato. Uno dei grandi obiettivi della corrida è la verdad, che ci riconduce al sublime, ove si trova la chiave della profondità della lidia: sublime matematico, dinamico e, soprattutto, estetico.

Mistero.

Sono innumerevoli le facce del mistero della corrida, ma, indubbiamente, il suo nucleo sta nella sorte del toro. Tutti amano il toro, stupendo, potente, coraggioso, violento, lo amano di un amore che risale ai primordi dell'umanità. Lo ama il pubblico, lo ama persino il torero, benché la belva compia ogni sforzo per ucciderlo. Eppure, malgrado il terrore che ispira, tutti lo amano. Si comprende, fra l'altro, dalla gioia del pubblico quando ottiene, sempre più spesso negli ultimi anni, l'indulto per un animale particolarmente nobile, forte e coraggioso. E allora, perché il toro deve morire? Soprattutto, perché la corrida perde ogni significato profondo, perde la verdad, senza la morte del toro? Perché? Tale è il mistero della lidia. Il filosofo Francis Wolff, nel suo splendido libro Filosofia della Corrida cerca di spiegarlo; i suoi argomenti sono brillanti, fondati su una cultura vasta, solida e profonda. Eppure... nessuna spiegazione ci può convincere razionalmente che questo animale meraviglioso deve morire. La verdad ce lo suggerisce, come una musica spirituale. E' il Mistero.


Paolo Zanardo


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)