domenica 8 agosto 2010

Belmonte, la Catalogna e Nucci

Dovrebbe uscire oggi su Il Domenicale un pezzo a firma di Matteo Nucci, che parte dalla Catalogna per parlare di Belmonte, e parla di Belmone per spiegare la Catalogna.
Usiamo il condizionale perché non ne siamo sicuri, edicole qua vicino al nostro buen retiro montano non ce ne sono, e quindi possiamo solo fidarci della soffiata che avevamo avuto.
Ma poco male: noi il pezzo ce l'abbiamo già, e per intero, e dunque finisce dritto dritto sulle pagine di Alle Cinque della Sera, in questa bella domenica di inizio agosto.
Bravo ancora una volta, Nucci.


Juan Belmonte e la Catalogna

Quando, il 28 luglio, il Parlamento Catalano ha dato il definitivo via libera all'abolizione delle corride nella regione, presumibilmente nessuno avrà pensato a Juan Belmonte.
Uno dei toreri più importanti del Novecento, quello che cambiò per sempre l'arte di sfidare il toro selvaggio, esattamente cento anni fa uccise il suo primo animale, ma nessun giornale spagnolo se ne è occupato in questi giorni, e nessuno, neppure fra i più appassionati sostenitori dell'arte tauromachica, quelli che hanno cercato fino alla fine di salvare la fiesta nacional in Catalogna, ha pensato a lui.
Il dibattito sull'abolizione che è andato avanti negli ultimi mesi in Spagna aprendo ferite che sarà difficile rimarginare, arrivato alla sua fase finale e decisiva, sembra non concedere spazio a festeggiamenti di sorta.
Figuriamoci Juan Belmonte e il centenario del suo primo toro.
Eppure il libro che è stato recentemente ripubblicato proprio da un editore catalano, Juan Belmonte, matador de toros (Libros del Asteroide, pp. 345, euro 17,95) di Manuel Chaves Nogales s'inserisce perfettamente nella polemica, anche letteraria, che ha animato il dibattito sulla corrida.
Sono intervenuti un po' tutti, i grandi scrittori e intellettuali di lingua spagnola, da Mario Vargas Llosa a Javier Marias, da Javier Cercas a Fernando Savater, pur di mettere ben in chiaro che la corrida, per quanto spettacolo cruento in cui si dà morte pubblica a un animale, appartiene alla sfera dell'arte, un'arte la cui libera espressione non dovrebbe mai essere limitata. Oltretutto, come hanno spiegato in molti (e su tutti magistralmente Vargas Llosa) l'arte di sfidare e uccidere tori da combattimento non è soltanto in se stessa un'arte, per quanto effimera e indissolubilmente legata al momento – unico – in cui si svolge (come il teatro, del resto), ma è fonte d'ispirazione per altrettante forme d'arte e una delle prove più lampanti sta proprio nell'infinita produzione artistica che alla tauromachia si è ispirata. I nomi più altisonanti li conosciamo tutti: Goya e Picasso, Garcia Lorca e Neruda, Botero, Dalì, Bizet, Orson Welles, Hemingway, Cocteau.
Molto meno conosciuti, almeno in Italia, gli innumerevoli scrittori di letteratura taurina, tra cui non può che finire anche questo piccolo capolavoro su Belmonte, il cui autore in realtà non fu mai un aficionado a los toros (come si dice in gergo per definire un appassionato di tori, visto che i tori e non i toreri – che lo si voglia o no e certo assai stranamente per gli inesperti – sono il vero centro della passione taurina).

Manuel Chaves Nogales fu uno straordinario reporter nella Spagna degli anni '30. Scrisse libri che sono ora al centro di una intensa rivalutazione e nel 1935 pubblicò a puntate su Estampa, rivista al tempo molto nota, la biografia in forma letteraria e rigorosamente in prima persona di quello che allora era l'indiscusso re della tauromachia.
Poi pubblicata in forma autonoma, la biografia ebbe un notevole successo ma finì presto relegata tra i libri fondamentali delle biblioteche taurine, quelle biblioteche che assai poco spesso hanno superato i confini del paese e dello specialismo. Del resto, allora, la guerra civile era alle porte, Chaves Nogales abbandonò la Spagna per Parigi eppoi, con l'occupazione tedesca, si spostò a Londra, dove morì nel 1944 a 47 anni.
Dovevano passarne più di sessanta perché il suo nome tornasse al centro di serie discussioni fra i letterati.

Il suo Belmonte, comunque si debba giudicare l'opera dell'autore, resta fra i libri di maggior spicco. Perché, attraverso l'uomo e la sua ascesa nell'empireo della tauromachia, Chaves Nogales racconta in forma quasi romanzesca ("una biografia che leggo come un romanzo" ha sentenziato Javier Marìas) la Spagna del primo Novecento, nonché tutto quel che ha a che fare con la sfida ai tori, dagli allevamenti ai loschi giri del mundillo taurino, la piccola giostra che segue da secoli un mondo criticatissimo nell'era del politically correct e apparentemente in via d'estinzione.
Che questo mondo possa scomparire proprio completamente poi è un'altra questione.

Certo, la Catalogna ha sempre rivendicato la sua estraneità alla cultura della fiesta nacional (la festa dei tori, definita nacional da fine 800 per la forza con cui muoveva le masse) e ormai da molti anni l'unica plaza de toros dove si celebri il rito tauromachico è la Monumental di Barcellona. Già il cantore dell'epos taurino più noto alle masse, Ernest Hemingway, nel 1932, scrivendo quel manuale di corride che è anche manuale di letteratura, Morte nel pomeriggio, spiegava la lontananza della Catalogna dall'amore per i tori, trovandone il motivo nello spirito pratico dei Catalani che li renderebbe lontani da una riflessione costante sul mistero della morte che è il cuore della corrida e sentenziando che la Catalogna non è Spagna.
Eppure in quegli anni le arene di Barcellona erano tre e una di queste oggi si sta addirittura trasformando in centro commerciale.
Chi teme di più gli effetti della votazione di oggi, non ha paura per la Monumental di Barcellona che ormai fa il tutto esaurito solo quando l'idolo moderno, José Tomàs, decide (molto frequentemente, a dir la verità e con il piglio del leader che sceglie la piazza per la propria rivendicazione) di dare memorabili corride proprio fra gli aficionados catalani. Non si teme per Barcellona dove i taurini si nascondono al pubblico (basta girare per i bar intorno alla plaza de toros per accorgersene: gli aficionados si riuniscono nei sotterranei come moderni carbonari). Si teme per il ruolo guida che la Catalogna ha sempre rappresentato nei confronti della Spagna, la funzione d'avanguardia, il traino che potrebbe decidere di una intera tradizione nell'arco di pochi decenni. Del resto, lo spettro dell'abolizione ha sempre rappresentato, tra gli appassionati, un vero e proprio incubo.

Nel libro di Chaves Nogales c'è un intero capitolo in cui si parla della paura, la paura che tutti i toreri hanno, nessuno escluso, la paura che regolarmente precede una corrida.
Sono gli attimi in cui, secondo Belmonte, si sviluppava una sorta di dialogo interno tra lui e la sua inseparabile amica. La paura faceva di tutto per convincerlo a rinunciare e uno degli argomenti si sviluppava così: "In pochi anni, non ci saranno più aficionados né tori. Sei sicuro che le generazioni a venire avranno qualche stima per il valore dei toreri? Chi ti dice che fra qualche giorno non verranno abolite le corride e disdegnata la memoria dei loro eroi? Magari i futuri governi..."

Sarà così? Capiterà questo a una tradizione che in Spagna fu resa popolare a inizio '700 quando, secondo le ricostruzioni, dopo secoli di tauromachia a cavallo, Francisco Romero, artigiano di Ronda, affrontò un toro a piedi, rendendo la sfida dei tori fruibile al popolo e non più soltanto ai nobili possidenti di cavalli? Capiterà questo a una tradizione che, secondo altro tipo di studi, affonda le radici in riti ancestrali, alle origini della nostra civiltà: la sfida dell'uomo al toro, già testimoniata in graffiti preistorici e certo sulle mura di Cnosso, a Creta? Impossibile dirlo adesso. Per ora, mentre il Parlamento catalano vota una legge che ha sollevato nuovamente il dibattito, c'è qualcuno che leggendo Chaves Nogales, senonaltro per ragioni puramente storiche, ricorda i cent'anni del primo toro di Juan Belmonte.
Un uomo che cambiò inesorabilmente l'arte forse costretto da una certa sfortuna di nascita. Piccolo, braccia corte, gambe poco forti, tutto il contrario dei toreri più dotati, Belmonte fu costretto a far quello che gli altri potevano ben evitare: avvicinarsi esageratamente all'animale. Ruppe le regole, le geometrie, invitò i tori a una carica diversa con l'uso sapiente dei suoi polsi e rifiutò qualsiasi teorizzazione della propria tauromachia.
“Si torea come si è” ripeteva, sottolineando che per lui i tori erano la vita; la sfida alla paura la sua costante.
Quando il libro Juan Belmonte, matador de toros fu pubblicato, Belmonte girava ancora per le arene di Spagna, portandosi appresso una borsa zeppa di libri, lui che divorava tutto, da Maupassant a D'Annunzio.
Era un uomo tenebroso e complicato e certo non pensava al futuro, perché come dice lui stesso in chiusura del libro: "io sono nato stamattina".
Non pensava all'incipiente guerra civile, né immaginava come sarebbe finito il suo biografo, in un esilio ingiusto. Né pensava alla sua vita senza tori che concluse quasi trent'anni dopo, quando decise di morire.

Secondo i racconti, uscì presto al mattino, nella sua tenuta, scese da cavallo e affrontò un enorme toro sperando che finalmente un animale potesse avere ragione di lui, ma anche in quell'occasione fu la sua arte a prevalere.
Allora tornò a casa e si sparò nel petto, sulla cicatrice che un corno gli aveva procurato anni prima.
Era il 1962, un anno dopo la morte di Hemingway.
Le corride non erano state abolite, anche se, come diceva Belmonte da anni (e lo stesso Hemingway parallelamente confermava): "la perfezione dell'arte di toreare sta spingendo alla decadenza: il combattimento si convertirà in uno spettacolo da circo, desostanziandosi. Sussiste la bellezza della fiesta, ma l'elemento drammatico, l'emozione, l'angustia sublime della lotta selvaggia si sono persi. E la fiesta inesorabilmente decade."

di Matteo Nucci

1 commento:

Anonimo ha detto...

Amiable dispatch and this fill someone in on helped me alot in my college assignement. Gratefulness you on your information.