giovedì 18 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (seconda parte)





Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’animale che gira intorno all’uomo in una danza interminabile. Nulla è come l’uomo che sa stregare il toro e sa accompagnarlo sul cammino della perfezione fino alla morte. La muleta e il grido del torero che invita l’animale a caricare, il panno rosso e il movimento del braccio teso in avanti e le gambe divaricate e la mano sul fianco. “Mira, mira, mira, eh, bonito”. Il muso del toro e gli occhi che per un attimo sembrano percorsi da una fiammata eppoi la carica e il panno che si muove mentre le corna affondano nel corpo che non c’è e uno scarto e un cambio di mano e la muleta che ricompare nella sinistra e il toro che si volta e attacca di nuovo. Non c’è nulla da dire, nulla da fare o da commentare. Anche l’esperto che è accanto a te sui gradoni del tendido sta zitto, non ha più voglia di criticare o gridare e rimproverare i tori, i toreri, gli impresari, i cavalli e tutta la sventura di questo mundillo taurino che sta portando le corride alla disfatta, perché tutto è decadenza, tutto è noia, ormai, tutto è fine di un mondo che era beato e perfetto solo cento anni fa. No, anche l’esperto accanto a te non ha più forze per criticare e rimpiangere, anche lui tace e guarda il toro girare attorno all’uomo e sente i sospiri di chi gli è accanto e in quei sospiri si lascia trasportare.

Fu l’anno che percorremmo le strade dell’Extremadura, ci fermammo in cittadine che erano la forza dei conquistadores spagnoli, visitammo cattedrali e palazzi e regolarmente riuscimmo a infilarci nelle ferias dei paesi più sperduti pur di perderci nella felicità intrisa di morte di ogni festa spagnola. Perché questo ha la felicità tracimante che rende immortale una notte di fiesta, quel senso di morte accettata e sfidata, quell’idea della fine che è talmente onnivora da non poter essere affrontata in altro modo che con la sua esaltazione. Bere fino al termine delle possibilità umane, mangiare con una voracità che superi qualsiasi ansia di competizione terrena, giocare, danzare, gridare, amoreggiare e guardiamola in faccia la puttana morte. Così mangiammo coda di toro in una taverna che sembrava una semplice casa, sulla strada provinciale da Valverde de Leganés a Barcarrota. C’era una scritta nera sull’intonaco bianco, era una pennellata sbattuta sul muro da una mano tremante e le lettere erano ineguali: Venta. Ma cosa si vendeva? Dentro c’era una signora di una cinquantina d’anni che si arrabattava dietro tessuti che cuciva per non so quale tipo di ricorrenza. Ci disse che potevamo mangiare coda di toro, era pronta, l’aveva preparata nelle ore precedenti, ore e ore curandola con infinito amore. Se invece volevamo qualcosa di diverso la scelta era ristretta a poche cose. Non lasciammo che le elencasse e chiedemmo coda di toro. Era un miracolo che si scioglieva in bocca e un sogno che non potrò vivere mai più perché col tempo il sogno ha assunto un carattere extra-mondano come i ricordi dei tempi d’oro per gli aficionados che non si vogliono accontentare e desiderano solo sognare. La mia coda di toro perfetta resterà sempre quella della signora malinconica, la signora felice che noi fossimo lì a elogiarla, l’unica suprema coda del mondo, assieme alla coda della Mesòn de Paco a Jerez de la Frontera, una trattoriaccia dove torno sempre ogni volta che sono in Andalusia. E chissà invece se ritroverò mai la venta sulla strada da Valverde de Leganés immersa nella dehesa perfetta, tra allevamenti di toros bravos e allevamenti di maiali patanegra, chissà se ritroverò mai la signora indaffarata con tessuti di un’altra epoca. Era buio in quello stanzone dalle mura disadorne, fuori il sole attanagliava ogni cosa, ma lì regnava la penombra e la signora ci parlò dei novillos uccisi in paese due giorni prima e ci invitò a seguire la corrida della sera. E noi andammo. La plaza era dentro il paese. Sembrava uno spettacolo d’altri tempi e mentre seguivamo il flusso di gente che si arrampicava per i vicoli di Barcarrota ci chiedevamo come fosse possibile. Ma le mura della plaza erano integrate nelle mura delle case e sembrava di vivere un tempo che ci era ormai sfuggito.

Il giovane torero della zona era aspettato da un’enorme quantità di amici e conoscenti e familiari e tutto era pronto per il suo trionfo. I novillos erano piccoli e maneggevoli e i primi tre animali esaltarono l’arte dei ragazzi. Poi quando fu il momento del quinto qualcuno ripeté il proverbio “no hay quinto malo” forse per sottolineare l’eccezione perché era un toro che di caricare, lottare e uccidere sembrava non avere nessuna voglia. Il peggio fu che anche il ragazzo che gli si trovava di fronte non sembrava essere divorato dal morbo dell’aficiòn e, dopo le rose e i cappelli e i ventagli gettati al suo compagno che era l’eroe di Barcarrota, entrò nell’arena come svuotato. Fu uno degli spettacoli più dolorosi e tristi a cui potessimo assistere. L’animale scartava continuamente e il novillero ne aveva paura e tutta la corrida fu una gara del ragazzo con se stesso per non correre troppo velocemente fino alla fine, ma quando la fine arrivò invece fu lentissima. Il ragazzo si apprestò a mettere l’animale in posizione per ucciderlo dopo aver dato pochi passi di muleta, ma l’animale non allineava le zampe anteriori e il ragazzo gli sventolava la muleta sul muso per farlo spostare e l’animale avanzava, si voltava, faceva qualche altro passo e mai che riuscisse a fermarsi con le zampe anteriori perfettamente parallele tanto da scoprire alla vista del novillero il punto fra le scapole dove infilare la spada. Il pubblico intanto aveva già festeggiato e non ebbe pietà. Cominciò a rumoreggiare, a sospirare, a fischiare. Io vidi la mascella del novillero tremare di paura e di rabbia, il sudore scendere sulla tempia e gli occhi quasi vitrei e annoiati e sprezzanti fino al sussulto che spinse il ragazzo alla rabbia contro il pubblico che aveva esaltato il suo compagno per semplice spirito di appartenenza. Lo vidi che ignorava le zampe del toro e si metteva in posizione, alzava la spada sulla spalla, mirava, abbassava la muleta verso la sua destra eppoi gridava e saltava oltre le corna del toro e la spada rimbalzava sulle scapole del toro e volava via lontana. Sentii le grida del pubblico e vidi il ragazzo terreo in viso avanzare verso la spada mentre i suoi aiutanti distraevano l’animale. Vidi questa scena ripetersi quattro volte finché la spada entrò sul dorso dell’animale, obliquamente e per metà, e vidi l’animale muoversi stancamente mentre il torero era sommerso di fischi e vidi il ragazzo tentare di darsi un contegno con uno stoicismo che doveva aver tirato fuori dalle pieghe del suo terrore di fallimento tanto da apprestarsi davanti alle corna del toro ostentando uno stile e un’eleganza che parevano adesso sovrannaturali. Fischiatemi pure, cabrones – sembrava dire. Fischiate tutto, ma io e quest’animale qui siamo fratelli. E quel che fece il toro dopo? Non potrò mai dimenticarlo perché fu una delle morti più strazianti a cui io abbia mai assistito. Restò fermo ansimante con la bocca aperta a guardare il ragazzo immobile davanti a lui, lo guardò con una pena e una fraternità che ormai io consideravo evidenti. Poi si voltò, quasi salutandolo e dicendogli addio, lasciandolo al mondo putrefatto in cui il ragazzo avrebbe dovuto continuare a vivere. Si voltò e a piccoli passi cominciò a camminare verso la porta del toril, verso le stalle da cui era uscito. Forse sognava i campi in cui per anni aveva vissuto, forse sognava i suoi fratelli a cui era stato sottratto, forse cercava per l’ultima volta l’odore dell’allevamento di Salamanca da cui era stato allontanato. Sulla magnifica, antica plaza di Barcarrota scese un silenzio di tomba, nessuno fiatò, nessuno ebbe più il coraggio di mormorare nulla. L’animale si avvicinava sempre più stanco a chiqueros e quando fu davanti alla porta aprì un po’ di più la mandibola, la lingua scivolò fuori con un fiotto di sangue e alzando gli occhi oltre all’altezza da cui si lasciava cadere, il muso alto sulla porta, si accasciò. Il ragazzo restava al centro dell’arena immobile e io sono sicuro di averlo visto piangere.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Vado ai tori perché nulla, nulla, nulla in questo mondo di nani e ballerine è grande e duro e vero come i tori.



Matteo Nucci (seconda parte - fine)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)



3 commenti:

Anonimo ha detto...

"lo guardò con una pena e una fraternità che ormai io consideravo evidenti"...la fierezza del toro.

Diego.

chicco ha detto...

... impressionante !

Anonimo ha detto...

Mamma mia. Bello da brividi. Fantastico. Leggerlo a novembre è una tortura. La temporada è lontana..grazie. Marco, Siena