sabato 12 marzo 2011

Un libro riuscito male


"Non è considerata valida una carica nella quale non v'è stato un vero encuentro (o encontronazo) e pertanto la picca ha ferito il toro solo superficialmente (marronazo, marrar el toro) e di passaggio (de refilòn), senza penetrare (picotazo), ma solo infilandosi sotto la pelle (enhebrar). Il colpo deve esser dato, infatti, in una zona particolare (crocera) del garrese mentre il toro abbassa la testa (humillado) per incornare il cavallo, subito alla fine del muscolo (detto morillo) al termine del collo sopra le spalle (...)".

Il brano qua sopra è preso da Manuale di tauromachia - breve guida per un futuro "aficionado" di tale Gherardo Casaglia, titolo che avevamo scorto in internet e sulle cui tracce eravamo da un pò.
Recuperato con nostra grande sorpresa in una polverosa libreria della piccola città di provincia, nei giorni scorsi abbiamo dunque provato a leggerlo.
Ma solo provato, ché l'ossessione dell'autore per i termini in spagnolo è tale che la lettura del testo diventa pressoché impossibile: o perlomeno è fuori dalle nostre capacità umane doversi soffermare ogni quattro parole a considerare e possibilmente memorizzare un ispanismo, un termine gergale, un corsivo.
Ora, è vero che come il francese per il ciclismo lo spagnolo è la lingua ufficiale della corrida, ma qui abbiamo davvero esagerato.

Il problema è che al di là dello smisurato sfoggio che l'autore fa della sua conoscenza della lingua spagnola, al testo rimangono pochi motivi di interesse.
A dispetto del roboante titolo, questo Manuale è poco più di un libretto di istruzioni per chi decidesse andare a vedere la sua prima corrida: entrano gli alguaciles, poi i subalterni e gli uomini a cavallo ricevono il toro, poi il torero lavora con il panno e presa la spada uccide l'animale.
La corrida diventa così un fatto bidimensionale che è sufficiente spiegare attraverso qualche disegnino (nel testo ce ne sono alcuni, che illustrano passi con la capa o con la muleta), un'esperienza meccanica senza nessuna profondità o imprevedibilità: una sorta di videogame di cui il manuale illustra la dinamica, succede questo e poi quello, questo succede così e quest'altro succede in quest'altro modo, e stop.

Glissiamo sulla casa editrice, il cui catalogo se avessimo conosciuto prima evidentemente non avremmo acquistato questo manualetto.

Bocciato.

mercoledì 9 marzo 2011

Capitan e José Luis




C'è un pò di Civilon in questa storia, e chi si ricorda di Civilon sa cosa intendo, in questa che è una di quelle storie che solo la Spagna sa creare e vivere e celebrare, la Spagna che ancora resiste nella terra dei pueblos, delle feste pagane con le mille lucine, delle strade polverose, delle tapitas e delle madonne vergini.
Del toro, la Spagna del toro.

Capitan è appunto un toro, allevamento Santos Zapateria nel nord del paese, che a due anni e rotti pasce l'erba fresca dei campi e riposa negli stalli in attesa di andare a esibirsi nei paesi della zona il giorno del patrono, quando i tori vengono liberati per le strade e i giovani li sfidano sotto gli occhi delle ragazze, i giovani in calore che scartano, fintano, mimano passi con la capa, spesso scappano, tutto per conquistare la bionda che è lì ad ammirarli e emette gridolini ormonali e di eccitata paura.
José Luis Pejenaute è invece un canuto signore, abita vicino a Santos Zapateria, è aficionado e soprattutto ha una venerazione per il campo: appena può si reca in quell'allevamento, dove passa ore ed ore a studiare i tori, immaginarseli, ammirarli.
I due si incontrano lì.
L'uomo sta offrendo un giorno qualche mela a un paio di vacche e l'animale lo vede e gli molla un colpo.
José Luis cade e il sangue si gela, d'altronde ha di fronte un toro bravo, eppure non fugge: tasta con la mano per terra e trova una mela, che porge alla bestia.
Capitan la addenta, la mastica, se ne va.
I due si rivedono, spesso, sempre più spesso, e José Luis raggiunge Capitan e si ferma lì con lui, gli parla mentre si riempe gli occhi del verde del campo e le narici dei profumi del campo, di quel campo che per José Luis è paradiso.
José Luis parla a Capitan e Capitan è lì vicino a lui.

Viene la stagione delle feste di paese e Capitan parte sul camion per andare a correre dietro ai ragazzi, sfiorarli con le corna, seguirli fino alle transenne qualche volta mandandoli all'ospedale, e poi ancora e ancora.
José Luis decide un giorno di andare anche lui, di andare a vedere quel toro che gli ha fatto compagnia là nella pace della campagna.
Liberano Capitan, e le stradine del villaggio si svuotano dei pavidi e si riempiono dei coraggiosi: stuzzicano il toro, lo sfidano, gli corrono attorno sempre più vicino, poi subito si spostano, devìano, scappano. Le recinzioni tremano quando i ragazzotti arrivano di corsa e si appoggiano e le scavalcano, si riparano, si appendono ai balconi per poi uscire di nuovo a sfidare il toro. Capitan attacca, testa bassa, ogni cosa che entri nel suo raggio. Qualcuno ne fa le spese, il toro distribuisce brividi e cornate.
Una scena come se ne vedono migliaia ogni anno nei paesini della Spagna del toro.

Finché José Luis non decide di fermare Capitan.
Come se non fossero lì, dove la banda suona e le donne agitano ventagli e i bambini succhiano limonate, dove le ragazzine ammiccano e i ragazzotti sbevazzano, dove gli uomini fumano il sigaro del giorno di festa.
Come se non fossero lì ma all'ombra di una quercia, con l'erba fresca sotto ai piedi e la linea dell'orizzonte lontana, là, dove le colline toccano il cielo e il cielo scende a toccare le colline.
José Luis attraversa le transenne e arriva in mezzo con il passo lento dell'asceta, mentre attorno la gente schizza via come birilli.
Capitan, Capitan, oye Capitan. Quieto, Capitan. Venga.
E il toro sente quella voce, si ferma e va incontro all'uomo.
I due si riconoscono, il toro vicino all'uomo si placa, ma poi subito si lancia e attacca un ragazzetto che si era avvicinato, incredulo.
Venga, Capitan, quieto, Capitan.
Di nuovo quella voce e di nuovo quei muscoli e quelle corna si fermano, Capitan ricorda quei pomeriggi e quel sole caldo, là tra i recinti dell'allevamento, e José Luis lo sfiora, gli sussurra altre parole all'orecchio, lo tiene vicino a sé.
L'uomo torna dietro le protezioni, si ritira, e il toro riprende a menare fendenti, a caricare testa bassa, a inseguire chiunque entri nel suo campo visivo.

José Luis accompagna Capitan una volta ancora, e poi un'altra, e poi sempre, e ormai tutti li aspettano, per gridare prima di paura alle cariche del toro e sospirare poi di incredulità quando i due si ricongiungono.

Un giorno in un paesino sperduto chissà dove la gente che si stipava contro le recinzioni era particolarmente euforica, chissà forse l'alcool, forse il sole, forse una religiosità straripante.
La gente era tutta lì attorno e rideva, gridava, cantava, eccitata. José Luis ha parlato al toro, ma c'era troppa confusione, e José Luis si è distratto e Capitan anche, non si è ricordato o invece sì si è ricordato di tutto quello che ha nelle vene da secoli e millenni, e ha attaccato José Luis, lo ha spinto a terra e poi esploso in aria, e poi ancora e ancora.
Adesso sì che tutti si sono taciuti, lì attorno. José Luis era a terra e poi sollevato da quattro braccia amiche è stato portato di corsa in infermeria, e intanto Capitan là fuori ricordava a sé e a tutti che era lì per la sua bravura, e tutti inseguiva e costringeva a ripararsi dietro alle sbarre di ferro, e quando è stato il momento di rientrarlo, Capitan non ne voleva sapere e continuava ad attaccare tutto.
Finché José Luis si è ripreso e allora ha sentito cosa succedeva là fuori, e ha capito.
E' uscito dall'infermeria, malconcio e claudicante, e si è avvicinato al toro.
Ora non fiatava più nessuno.
Il toro era lì fermo, in mezzo alla piazzetta, gli occhi duri, i muscoli tesi.
José Luis si è avvicinato e gli ha detto, calmo, vamos a casa.
I due si sono affiancati e hanno cominciato a camminare così, l'uno accanto all'altro, sereni, e sono tornati a casa.


(questa foto fa parte della straordinaria collezione di Albert de Juan, che potete trovare a questa pagina di Flickr)

lunedì 7 marzo 2011

Tre


Tre sono i toreri, e di conseguenza tre sono le coppie di tori.
Tre paia di banderiglie e tre gli avvisi: e tre atti, naturalmente, non a caso chiamati tercios.
I subalterni sono tre, e tre sono gli officianti: matador, peone, picador.
Tre siedono alla presidenza, e la pista è divisa in tre settori: alle tavole, nel mezzo, e in centro.
Sole, sole e ombra, ombra, sono le tre categorie di posti all'arena.
I canoni del buon toreo sono, indovinate un pò, tre - parar, templar, mandar - così come tre sono gli stati del toro: levantado, parado, aplomado.
Tre sono le categorie di arene, tre sono le corse - novigliada senza cavalli, novigliada, corrida.
Tre gli strumenti per uccidere (spada, descabello, pugnale), tre i posizionamenti in suerte prima che non siano usate le banderiglie nere.

Sono sicuro che il misterioso legame del tre con la corrida non finisce qui.

Beh, certo, un paio di tre possiamo trovarne ancora.
Così come di Rafael Lazaga Julia, ad esempio sentiremo parlare molto anche di un certo 3.3 - ma ne diremo più avanti.

Soprattutto, Alle cinque della sera è qua da tre anni.
Era il febbraio del 2008.

(foto Ronda)


sabato 5 marzo 2011

Matatoro




Mi ricordo che alla sua presentazione in anteprima l'anno scorso alla Feria di Arles, una fresca sera nella bella corte della bodega Los Ayudantes, il filmettino non mi piacque.
Sono belli i colori ed è affascinante l'estetica, sui tratti di un disegno non pulito ma di effetto, romantico quasi: è che la (breve) storia mi apparve sconclusionata e anche pretenziosa, avendo voluto riempire quei pochi minuti a disposizione di troppe interpretazioni e contenuti.

Attraverso gli amici di Toro, toreo y aficion (*) ritrovo oggi Matatoro, il cortometraggio tauromachico-circense in questione.
Lo si vede, per intero, collegandosi a questa pagina.

venerdì 4 marzo 2011

Rafael Lazaga Julia


Segnatevi questo nome, Rafael Lazaga Julia.
Novillero.
Ne sentiremo parlare, molto.


(foto Ronda)

mercoledì 2 marzo 2011

Una mostra a Torino




Presso gli spazi della Galleria 44 di Torino è ospitata, fino al prossimo 2 aprile, la mostra TauromaQuia y alrededores dell'italiano Daniele Gay.

Docente presso l'Accademia Albertina di Torino, aficionado di lungo corso, l'artista piemontese ha raccolto per questa esposizione una quindicina di suoi acquerelli in cui propone e sintetizza la sua visione artistica della corrida.

I nostri corrispondenti da Torino, umili eredi del grande Paternostro da Londra, andranno presto a visionare la mostra e ci riferiranno.


(nell'immagine, uno degli acquerelli di Gay)

martedì 1 marzo 2011

Perché andiamo a vedere la corrida





Perché vado a vedere la corrida ?

Il toro nell'arena è trasparente. Ma non da subito. Bisogna che i sensi siano assuefatti. All'inizio non vedi altro che una nuvola nera. Questa enorme nuvola nera che volteggia incerta attorno a un damerino in ballerine, in attesa di ricevere un temporale di rabbia ferina.
All'inizio il toro è un paesaggio oscuro, i suoi contorni non sono definiti, non riesci a fotografarlo: ci vuole più luce. All'inizio tu sei un paesaggio monotono, senza confini, lo sguardo si perde in un orizzonte sterile e vuoto, senza ostacoli naturali: ci vuole più limite all'occhio nudo. Ma il limite lo impongono i sensi.
Quando il sole andaluso s' infrange sulla tua bocca aperta alla meraviglia, quando il fetore delle urine ti è familiare come una zaffata dell'odore di tua madre, quando la stronza malinconia di fine estate si fa viva al principio del Venerdì santo, ecco che i sensi sono pronti. Inizi a scorgere la trasparenza. Ora la nuvola gira, corre, arranca, segue, incalza, ma lo fa senza vie d'uscita. Ribolle su un percorso definito e si fa cerchio intorno al tizio in ballerine, che ora sembra un damerino vitruviano. La nuvola non è affatto incerta, è destinata e tu lo vedi. Non è più lamento del cielo.

Ora la nuvola conta i passi al tuo stupore, le distanze si fanno di cartapesta. E' qui, imponente gonfia di tuono, nero carbone di un pozzo profondo, che si manifesta per la prima volta. Ad un tratto, ci si vede attraverso. Ecco scorgere nitidamente, nella carica oscura, il demiurgo che la fomenta. Sei tu, con la tua ridicola vita in ballerine, che affanni al principio di un temporale ancora da venire. La nuvola nera di morte ti accompagna da sempre, ma solo ora ti accorgi che, il temporale che porta con sé, ti appartiene. Sei tu a destinare la danza muta del toro, sei tu a disegnare il cerchio di niente che ti misura la vita. Sei tu, oggi, a sacrificare il temporale per un giorno migliore.


Sergio Imparato



(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)