La prima risposta che viene in mente quando ci si chiede il motivo per cui si fa qualcosa è: perché mi piace. Come per i bambini, di solito questo basta: vado allo stadio perché mi piace il calcio, vado ad un concerto perché mi piace un gruppo musicale piuttosto che un altro.
Tuttavia, quando si tratta della corrida, sembra sempre che questa giustificazione non sia sufficiente. Non può piacere un animale che viene ucciso, non può appartenere alla sfera del ludico un rituale che contempla la morte. Da quando ho deciso di occuparmi di questo argomento, quasi per caso, durante una vacanza studio ad Alicante, me ne sono sentite dire di tutti i colori: che studiavo un argomento inutile, che il folclore non può essere oggetto di tesi, persino che ero un fascista, siccome sostenevo la fiesta nacional, che ha conosciuto la sua massima espansione durante il franchismo.
Inutile dire che queste opposizioni venivano soprattutto da chi nell’arena non solo non era mai stato, ma nemmeno aveva mai visto un filmato di una vera corrida. Probabilmente, ma nemmeno di ciò posso essere sicuro, l’esperienza di queste persone si fermava ad una delle trasposizioni cinematografiche di Sangue e arena.
Parafrasando Hemingway, per capire veramente se piace o no la corrida bisogna essere lì, nel coso taurino, e vedere questa sorta di spettacolo rituale in cui l’uomo si avvicina il più possibile ad un animale il cui peso può essere anche dieci volte maggiore quello del suo sfidante. Un rituale in cui il finale è scritto, prevedibile, ed è la morte del toro, perché il suo comportamento può essere letto come lo specchio della vita umana: all’inizio l’animale è giovane, pieno di energia, ma non riesce a indirizzare i suoi sforzi, a capire perché si trova in quel cerchio di sabbia, in mezzo a tutta quella gente. Comincia ad intuirlo dopo la suerte de varas e le banderillas, quando il suo collo, la sua giovinezza, sono state piegate ed assecondate ai voleri del diestro. Il toro comprende il suo scopo nell’arena quando ormai è troppo tardi, quando sta per abbandonare il coso con un estoque conficcato tra le scapole. A volte, però, avviene l’eccezione che conferma la regola: l’animale ha un sussulto, e si prende la sua rivincita, lasciando ai posteri non solo il suo ricordo, ma anche quello di un torero che ha avuto il coraggio di sfidarlo.
Per questo, credo, andiamo a vedere la corrida. Per passione. Per assaporare un elemento precipuo di un’altra cultura che, in quanto tale, rende detta cultura così unica. E perché a volte, dentro la morte, è intriso il significato della vita.
Simone Tepedino
(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)
2 commenti:
Arrivederci a Barcelona allora?!:
"Más de 590.000 razones para creer que la Fiesta de los Toros volverá a celebrarse en territorio catalán. La Federación de Entidades Taurinas de Cataluña ha dado el último paso y ha depositado en el Instituto Nacional de Estadística, en Madrid, unas 600.000 firmas que demandan una Iniciativa Legislativa Popular (ILP) para declarar los toros Bien de Interés Cultural en toda España."
Concordo, suggerendo una piccola modifica: "perché SEMPRE, dentro la morte, è intriso il significato della vita", perchè la vita e la morte sono la stessa cosa.
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