venerdì 28 agosto 2009

Red Sands




Festival di cortometraggi, pianura padana, una sera di fine agosto.
Il calendario scorre piacevole, il parco che ospita le proiezioni è cornice ideale, si vedono i piccoli film sotto le stelle, la rassegna coinvolge centinaia di persone ogni giorno dalle nove in poi.
Non solo appassionati cinefili, intellettualoidi, addetti del mestiere, gente del sottobosco culturale della città: se qualcosa di buono ha questo festival è d'aver vinto la scommessa, di essere riuscito a coinvolgere la gente del paese, dei paesi vicini, uomini e donne che da anni non mettono piede in un cinema e che però amano avvicinarsi a queste pellicole in formato small, farsi raccontare storie in miniatura, ridere per un filmetto e dopo qualche centinaio di secondi trovarsi a commuoversi per un altro.
Lunedì, martedì, mercoledì, un corto di animazione, un'opera di 5 minuti, un documentario che condensa la storia in qualche giro di lancetta e poi ancora, immagini, storie brevi, la musica spesso obbligata a farsi attore, protagonista, racconti a volte leggeri e teneri, a volte duri e senza concessioni.
E' un bel festival, ci va tanta gente, si sta bene.

Si arriva così a ieri l'altro, giovedì sera, prima un capolavoro assoluto (1), poi il presentatore annuncia il secondo blocco di visioni, snocciola i titoli, la gente riprende posto sulle seggiole, si fa buio.
Partono le immagini di Red Sands, documentario di David Procter.
Cazzo, sono 24 minuti sulla corrida.
Salto sulla sedia, mi sembra che tutta la gente sappia di quale macchia mi copro, mi sembra che tutti guardino me, mi sento accerchiato.
Mi giro, per fortuna c'è di fianco a me la compagna dei tanti paseillos, non sono solo.
Gli occhi qua sono abituati alle favolette di animazione con colori pastello, violetto, azzurrino, verdino, giallino, adesso c'è un interminabile primo piano del sangue che il toro ha lasciato sulla sabbia dell'arena, rosso, clamorosamente rosso, inequivocabilmente rosso.
Per i primi tre o quattro minuti faccio fatica a seguire, lo ammetto.
Poi mi rendo conto che la gente non ce l'ha con me, non mi addita, e torno a mettere come tutti gli occhi sullo schermo.

Red Sands, ovvero un'intrusione violenta nella quiete della campagna padana, un buco nero nel quale giovedì sera vengono risucchiate 150 persone.

Non vedevo l'ora che finisse, perché ogni minuto che passava mi chiedevo quale sarebbe stata la reazione di un pubblico non solo a digiuno di tauromachia, ma che nemmeno poteva sapere e si immaginava di aver di fronte 24 minuti così.
E insieme però speravo che la proiezione durasse il più possibile: non siamo al cospetto di un capolavoro visionario, di un'opera d'arte, ma il documentario è oggettivamente ben fatto.
Finalmente qualcuno che vuole, semplicemente, raccontare della corrida.

Red Sands è un documento sulla passione per i tori, in Spagna.
Fine.
A Pamplona, più precisamente, dove è ambientato e di cui ritrae una giornata alla San Fermin, dall'encierro all'ultima stoccata del pomeriggio.
A narrare il filmato, fuori campo, quello che si intuisce essere un aficionado attempato, con la voce roca d'ordinanza.
La pellicola certo sconta qualche semplificazione e soprattutto qualche fascinazione tipicamente anglosassone, lo sguardo è equilibrato e attento pur se qualche leziosità fa capolino più di una volta, qua e là.

Però, però...c'è qualcosa in Red Sands, una qualche cosa che è riuscita a tenere attaccate alle seggiole tutta quella gente ieri sera, fino alla fine, una strana energia magnetica delle immagini e delle parole che davvero attira e colpisce.
Credevo che metà del pubblico se ne sarebbe uscita dopo cinque minuti, e che l'altra sarebbe rimasta solo per fischiare.
Invece no.

Red Sands è un documentario, e in questo sì molto anglosassone: asciutto, oggettivo, sufficiente a sé.
Non è un filmato né amorevolmente apologetico né fanaticamente antitaurino.
Per dire, non ci sono solo passi con la capa rotondi e sinuosi oppure nemmeno morti lunghe e penose, non c'è solo lo splendore dell'oro o la vergogna del sangue.
Red Sands mostra le cose per quelle che sono, e questo lo fa bene: c'è tutto, in uno sguardo che solo lontanamente e in un secondo momento si intuisce coinvolto e affascinato.

Ci sono i volti tesi o rilassati del pubblico all'arena, il toro che esce dal suo gabbiotto e si infila nel circo, c'è la picca, una prima, una seconda, il sangue che cola sul manto bianco dell'animale, lo sporca, lo marchia, la vita che esce dal corpo.
Ci sono le banderillas, prima nelle mani dei subalterni e poi nella carne dell'animale.
I passi con la muleta, naturales, molinetes, gli scarti del toro, il suo respiro, lo zoom sui suoi occhi.
C'è l'arte e c'è il sangue, c'è il dolore e c'è l'entusiasmo.
C'è la spada che entra, qualche sssshhh in sala.
C'è addirittura la puntilla, la prima efficace e rapida, la seconda meno, la terza da macelleria.
C'è tutto, come dev'essere in un documentario.
Non male.

Poi certo qualche artificio tecnico e un pò di mestiere fanno il resto.
Le immagini sono spesso suggestive, con un taglio particolare e obliquo, e la fotografia non è antologica ma nemmeno scontata.
La voce fuori campo, che lascia pensare a un volto segnato dalle rughe, un sigaro tra le labbra e un bicchiere di fino davanti, gratta come una puntina su un disco impolverato, dà corpo a quelle immagini, le rende umane, vive, tridimensionali.
Quella voce, a cui solo per qualche fotogramma riusciamo ad associare un volto, si confessa agli spettatori, dice del suo contrastato amore per i tori: parla di emozioni così vere e forti da non poter essere tradotte, insieme di felicità e dolore, di liberazione e tensione, di infinita passione e ruvidi sensi di colpa.
Le sue parole raccontano a una platea di inesperti della fatica di essere aficionado ("la corrida è come il teatro classico, richiede rigore e conoscenza, non è cosa per tutti"), della meraviglia di essere aficionado ("le corride viste con mio padre, all'arena, un'emozione impossibile da dimenticare"), della pena di essere aficionado ("la morta lenta, un senso di colpa insopportabile").
Il mistero di essere, ancora e sempre, aficionado: "è una cosa che non puoi spiegare, che tiene insieme amore e dolore, e che non riesci ad abbandonare".

Infine la musica, che fortunatamente non è cliché: né flamenco, né pasodobles, non c'è nemmeno Paquito Chocolatero.
Un incontro tra l'elettronica più calda e l'orchestrazione classicamente cinematografica, un implacabile crescendo che davvero trascina e che si unisce, all'apice della progressione, alle immagini di una stoccata.

E poi Red Sands finisce.
Silenzio in sala, intuiamo lo stordimento e il disorientamento: niente da fare, la corrida è cosa che tocca, inevitabilmente, che non lascia indifferenti, che ti interpella la pancia e la testa.
Ma nessun fischio, nessun rumore.
Metà del pubblico tace, forse scossa, qualche brusio.
L'altra metà applaude, forse scossa, un applauso strano e elettrico.

Chi lo incrociasse a qualche festival o su qualche canale televisivo, non se lo lasci scappare.
Perlomeno, da vedere.



1. Lila, di The Broadcast Club e prodotto da Autour de Minuit

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