lunedì 23 maggio 2011

La prima volta fu a Jerez de la Frontera

A pochi giorni dall'uscita del suo Il toro non sbaglia mai, Matteo Nucci ci fa l'onore di questo testo pensato e scritto proprio per Alle cinque della sera e i suoi lettori.
E' un prologo al libro, è una confessione, è una chiacchierata tra amici, è un racconto.
E' il perchè de Il toro non sbaglia mai.




La prima volta fu a Jerez de la Frontera


Tutto cominciò definitivamente a Jerez de la Frontera.

Si era nei giorni di apertura della feria. L’hostal “Las Palomas” si andava riempiendo, una piccola folla era nell’atrio ricoperto di azulejos e l’uomo al banco neppure mi vide passare mentre uscivo. Fuori, l’aria era pulita e fresca, era il 13 maggio e per calle Higueras c’era odore di detersivo e dietro un angolo vidi una donna che stendeva il bucato, aveva mani grosse e fianchi larghissimi e si muoveva con grazia e canticchiava qualcosa con un filo di voce arrochita. Sbucai su Plaza de las Angustias e mi sentivo felice. Dietro l’angolo, a destra (allora era una novità, adesso una promessa) c’è un piccolo bar che è poi diventato il mio bar dell’anima. È il bar dove sogno di tornare al mattino quando d’inverno mi sveglio e fa freddo, il cielo è plumbeo e piove. È un piccolo bar senza caratteristiche precise se non che è spagnolo, che è la Spagna profonda e che ci sono quotidiani da leggere e sgabelli dove sedersi e grossi recipienti colmi di margarina da spalmare sulle fette di pane tostato e grossi recipienti colmi di succo di pomodoro e olio per chi preferisce la colazione salata. Lui, il padrone, ha sempre l’aria accogliente al mattino e io quel giorno chiesi una tostada e la ricoprii di margarina, poi ne chiesi un’altra e la ricoprii di pomodoro, intanto sorseggiavo caffellatte e finsi di guardare il giornale, finsi e basta perché quel che avevo di fronte era ben altro. Erano le dita di un uomo che sfogliava le pagine di un libriccino e intanto fumava furiosamente e beveva il suo caffè doppio. Erano le mani di un uomo sulla cinquantina, la pelle dura e nera dei gitani e le dita che sembravano scoppiare negli anelli d’oro, negli enormi anelli d’oro quasi rossastro, ma quando le muoveva, quelle dita – sul libro, sulla tazza, fra i capelli, sul banco metallico, sul filtro della sigaretta, sul pacchetto morbido, sull’accendino – quando le muoveva sembrava che avesse una grazia infinita, un’infinita leggerezza e un tocco sublime. E io lo guardavo e già ascoltavo la musica e sentivo la folla che bisbigliava, il toro che entrava nell’arena, i clarini, i mormorii, gli olé del pubblico, l’odore del toro, il ritmo delle cappe, il fruscio del panno giallo e rosa, la grazia, la grazia infinita davanti alla morte. E fu in quel mattino che capii cosa avrei voluto raccontare.

Più tardi, dall’altra parte della strada, un gruppetto di ragazzi al bar di fronte – un bar più signorile e moderno con seggiolette metalliche fuori al sole – si radunò intorno al fino di Jerez. M’invitarono a sedere con loro e a bere. E mentre bevevano lasciarono che le mani cominciassero a schioccare il ritmo e di nuovo il ritmo ricoprì ogni cosa e il canto flamenco partì e le voci arrotate, vive di una specie di raucedine soffiata, vibranti di emozione, si alternarono sulle mani che battevano e si mischiarono alle risate e al vinito che riempiva i bicchierini sottili e alla felicità della feria che travalicava. E di nuovo era la grazia, la grazia su tutto, la grazia sulla morte che incombe, la grazia sulla paura di vivere e affrontare se stessi, affrontare il toro che sta per uscire dalla stalla. Di nuovo era la folla e gli odori e i suoni e l’arena. E di nuovo era lì, lì, non altrove che andava cercato il segreto, il segreto che rende la corrida un luogo esemplare della sfida di ogni essere umano a se stesso, il luogo da descrivere per scrivere di tori. E se le immagini si andavano srotolando già come una pellicola, poco più tardi incontrai un uomo grosso e forte, buono e burbero, pieno di voglia di vivere, una moglie bella e elegante e le parole dure come pietre. Lo chiamavano El Cabeza, il “testone”, il “faccione”, per via della sua faccia quasi piatta e cinica, vera e scontrosa. Passammo del tempo insieme nella notte della feria di Jerez e il giorno dopo, mentre su Calle Doña Blanca mi aggiravo tra le vecchine che erano arrivate all’alba dalle campagne portando sacchi di lumache da vendere a ogni angolo accanto al mercato, pensai che El Cabeza avrebbe aperto il mio libro dei tori, sarebbe stato il primo personaggio del mio libro dei tori, avrebbe detto in poche parole già tutto quel che volevo dire sulla morte, la grazia, la sfida, la paura e il coraggio. Pensai che El Cabeza sarebbe stato il primo vero personaggio di molti uomini che avrei voluto raccontare, e così è stato.

Sono passati esattamente due anni da quei giorni a Jerez de la Frontera. Il libro è finito e sta per uscire e io non so se quel concentrato di grazia che splende sulla sfida che ogni essere umano lancia a se stesso durante gli anni che gli sono concessi in vita, splenda anche nel libro e riesca a raccontare l’immortalità della sfida dei tori nel suo essere un modello, un paradigma. Non posso sapere se due anni dopo quel mattino la sfida del libro, almeno quella, sia vinta. Però certo il libro è qui e racconta tutto quello che per molti anni ho sentito di voler raccontare. Perché se la prima volta in cui Il toro non sbaglia mai ha cominciato a nascere davvero è stata in quel mattino di Jerez, certo il desiderio, la voglia e quasi il dovere di scrivere di tori erano nati molto prima, davvero molto prima. Perché – intendiamoci – di tori in questo Paese non è per nulla facile sapere qualcosa e per noi italiani presi dal virus dei tori fino a pochi anni fa la vita era davvero dura. Per me, furono anni e anni di corride e di fatiche, quando con gli amici di sempre con cui avevamo deciso di capire almeno qualcosa di quel mistero che è la tauromachia moderna che s’incarna nella corsa dei tori spagnola, cercavamo ovunque suggerimenti, consigli, spiegazioni. Al tempo – ben più di quindici anni fa – non c’era internet e il blog Alle cinque della sera forse non era neppure nella mente degli angeli. Ovviamente, la televisione italiana non trasmetteva corride e in libreria poi non si trovava nulla. Nulla che non fosse Hemingway, certo. C’erano i suoi vibranti racconti, c’era Fiesta e c’era Morte nel pomeriggio. Ma nient’altro. Il libro di Lapierre e Collins sul Cordobés – l’unico altro tradotto in Italia – era da un pezzo fuori commercio, mentre il capolavoro italiano, Volapié di Max David, era sepolto nelle biblioteche da decenni. Nessuno, almeno a Roma, sapeva nulla di corride. Tutti invece erano pronti a condannare. Capire seriamente qualcosa era un’impresa. Scrivere un giorno di tori, allora, era già un dovere.

Scrivere di tori, spiegare la magia dell’arte, invitare a capire la perfezione dell’animale, aprire gli occhi sulla naturalezza della corrida, sulla superiorità della vita che conducono i tori da combattimento rispetto ai milioni di vacche e buoi che quotidianamente mangiamo uccisi nell’orrore dei macelli. Raccontare la bellezza degli allevamenti di tori – vere e proprie riserve naturali che hanno conservato un mondo. Mostrare i movimenti di chi si fa artista di fronte alla morte e quelli di chi invece fugge. Ripercorrere una storia secolare, offrire una possibilità di accesso a un mondo complicatissimo e sacro. Scrivere di tori era un dovere, sì. Soprattutto un dovere. Assaporato poi con il piacere di tutti gli amici incontrati per strada, tutte le persone conosciute e il vino bevuto a una corrida di paese e i panini smezzati da mani pronte a mettere quel che si ha in comune e le parole, le discussioni, le letture, i consigli. Un dovere portato avanti attraverso i paesi e le città di Spagna, gli allevamenti e le plazas de toros, le letture e le case degli aficionados italiani. E ora che quel dovere è compiuto non resta che partire ancora, ricominciare tutto di nuovo, cercare una volta in più una verità irragiungibile, la verità irragiungibile della corrida, la verità irragiungibile del nostro mondo. Non resta che inseguire di nuovo il nostro torero o il nostro toro e soprattutto ricordarsi sempre quel che gli interpreti più appassionati non si stancano di ripetere. “Ognuno ha il suo toro”, ognuno ha la sua sfida da portare avanti, una sfida che non ha fine e non si esaurisce se non nella sfida quotidiana, reiterata costantemente, alle proprie paure e alle proprie debolezze. Saremo pronti a ripartire sempre, insomma. Perché la stagione dei tori non finisce mai.

Matteo Nucci


(foto Ronda)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Speriamo arrivi presto il 26 maggio.
Grande Matteo
Michele e Fiore

El Pana ha detto...

YA FALTA MENOS!!!!!!

Anonimo ha detto...

Finalmente ! Auguro al libro un meritato successo, so che è costato molto lavoro e molta passione.

Saluti.

Marco

Anonimo ha detto...

"Scrivere di tori era un dovere"...grazie Matteo, grazie Luigi...