giovedì 30 ottobre 2008

La mia prima corrida




La prima volta che ho visto un toro entrare in un'arena ho avuto, semplicemente, paura.
Non già per la mia incolumità, ché l'ignoto che si affrontava imponeva l'economicità dei gradini più alti, piuttosto invece perché quel così selvaggio ingresso era una fragorosa e inesorabile dichiarazione.
La conferma necessaria di una verità altrettanto necessaria: la corrida è una cosa vera, terribilmente vera, in cui l'avversario c'è, è lì di fronte, ed è lì perché la lotta e la morte non sono sublimate né immaginate né rappresentate ma accadono, inevitabilmente e davvero.
E' affare tra uomo e toro, e lo è nel reale.
E' affare, soprattutto, tra quell'uomo e quel toro, una volta e mai più.
E quell'animale nero, ora lì fermo e fiero in mezzo all'arena, il suo respiro le sue corna i suoi muscoli inumani, quell'animale era lì a confermarlo, ad avvisarmene.

Paura.
Di assistere a qualcosa che forse, intimamente lo sapevo, mi avrebbe segnato.
Di aver pagato, sì, come tutti gli altri, ma forse di non essere pronto, un bluff riuscito male e che presto avrebbero smascherato.
Più che altro la tensione ai nervi per l'essere al cospetto di qualcosa di irripetibile ed ineluttabile, così lontano e diverso da tutto il conosciuto, da tutta la finzione che i nostri anni mediati e mediatizzati ci hanno costruito attorno, bambagia in cui anestetizzare e nascodere pulsioni, istinti, verità.

Paura, ovviamente, della morte.
Che neghiamo e allontaniamo, nelle nostre misere giungle metropolitane, ma che quel giorno avrei visto proprio lì sotto a me, avrei legittimato con la mia presenza, addirittura forse avrei applaudito.

I primi venti minuti furono così, di paura, un uragano incontrollabile di emozioni inaspettate e immediate, la ragione incapace di averne ragione.

Arles, 26 marzo 2005.
Pioveva e c'era freddo.
Tori di Victoriano del Rio per Cesar Rincon, Sebastien Castella e Miguel Angel Perera.
Col senno di poi avrei capito, e con le lettura avrei saputo, che fu una corrida deludente e brutta.
Tori deboli, uomini poco ispirati e mal serviti, e gli elementi a sfavore.
La mia prima corrida.

Perché eravamo entrati, noi turisti da un terra a totale digiuno di tradizioni e tori?
Per caso, per curiosità.
Per una sorta di interessato e laico approccio alle cose.
Perché eravamo alla feria di Arles e tutto era toro, perché in una bodega la sera prima cento affiches sui muri, per l'abrivado sul boulevard.

Comprati i biglietti al mattino al botteghino, i meno cari per favore, alle 16.30 in punto sentii l'orchestra dell'arena attaccare l'aria della Carmen.
Bello, pensai, inadatto ad un macello.

Di quello che successe dopo non mi rimane che un confuso mosaico di immagini , sensazioni sulla pelle, reazioni impreviste, colori.
Paura, e già si è detto.
Ma non ci fu solo quella.
Vennero poi, o subito, o prima chissà, anche turbamento e confusione.
Totali, assoluti.
Eravamo entrati senza sapere nulla, in verità nemmeno se e quanti tori avremmo visto sacrificare.
Se, addirittura.
Confusione: nessun gesto conosciuto, nessun suono prima già ascoltato, nessuna prassi nota.
Nessun appiglio.
La solennità del paseo e però tutta quella gente in fila dietro gli alguaciles, vestiti come comparse a teatro, chissà cosa ci facevano tutti quei figuranti lì quel giorno; l'ingresso dei picador, uno spontaneo sorriso di sollievo, la speranza che adesso finalmente fosse arrivato qualcuno a mettere un pò d'ordine, finalmente un'autorità, e maledetto quel toro che correva a mettere le corna nel fianco del cavallo; il gesto atletico e sfrontato dei banderilleros, una scossa lungo la schiena, ma c'è qualcuno che invece li fischia.
E infine un uomo tutto solo davanti al toro, allora forse il torero è lui, il torero titolare.
Un inganno, un gioco a due, una sfrontata danza, amore e guerra.

La morte del toro, la spada che si affonda e quella bestia che si corica ed io ad applaudire, cristo, non me ne rendo conto, ad applaudire un uomo che ha ucciso un toro.
E pure era così giusto, lì, in quel momento, applaudire proprio quell'uomo, e fu così spontaneo.

Conobbi per la prima volta, quel giorno, anche l'aficion.
Che si presentò col volto scuro e le rughe di un signore non più giovane, gli occhi svegli, all'angolo della bocca un sigaro più masticato che fumato.
Seduto fianco a me, pazientemente e con discrezione mi spiegò, dal secondo toro in poi, cosa stava succedendo lì davanti a noi.
Cominciai a giustificarmi allora il perché di quei fazzoletti bianchi o degli applausi improvvisi, ricondussi a ragione quei fischi radicali, capii l'espressione tirata del torero.

Paura e confusione, ecco cosa rimane di quel sabato.
Più qualche immagine ancora oggi impressa nella memoria, e credo lo sarà per tanto tempo ancora.

I colori degli abiti innanzitutto, quei vestiti eleganti e unici, di luci davvero, opera certo di un sarto raffinato ed innamorato di loro, quegli abiti che mal si addicerebbero ad una volgare mattanza eppure così giusti per una corrida che è tutt'altro.
A sposarsi e morire, si va eleganti.

Il colore del sangue sul fianco del toro, rosso vivo di una vita che se ne va, a lucidare quel nero assoluto già sfavillante di sudore e fatica.
Poi la spada di Rincon, la prima spada che ho visto, quasi ridicola, esile ed inadeguata, un dito puntato sul petto di un gigante, una spada che nemmeno era speranza, solo sciocca illusione.
Ebbe ragione lei.

Il pase cambiado di Castella, il toro sempre più vicino e quell'uomo incosciente e immobile, il toro ormai gli è contro e improvviso si apre un panno di seta rossa, il nero la sfiora, passa, se ne va, e l'uomo è ancora lì, dritto.
Sembra fino sereno, da qua in alto.

E infine le donne e i bambini sui gradini dell'arena, a vedere la corrida.
Se va bene alle donne e ai bambini, va bene a tutti.

Alla fine fu più o meno come scendere dalle montagne russe.
Per un'ora, fino all'abergo e dopo la doccia finalmente calda, non ci dicemmo niente.
Poi il pastis al bar du Marché aiutò le parole, e cominciammo a parlare quasi inconsciamente dei tori e dei brividi, dell'emozione e dei toreri, dell'entusiasmo e della paura, della pena e dell'eccitazione.
Sono passati più di tre anni, non abbiamo ancora smesso.

Sono venute le letture, Hemingway in italiano prima, molte più cose in francese o spagnolo poi.
Sono venuti i viaggi e gli altri pomeriggi all'arena, sempre più spesso in compagnia, per una passione che ogni giorno si alimenta da sé, si fà spazio, cresce.
Una febbre, mi ha detto un giorno un aficionado italiano conosciuto proprio lì.

Arles, 26 marzo 2005.
Sono momenti di indescrivibile eccitazione quelli che sempre precedono l'ingresso all'arena: nei bar, per le strade, sulle scalinate, nei piazzali, un formicaio impazzito di aficionados che, forse coscienti di avere appuntamento con l'imprevedibile e la verità, rispondono agli istinti più puri bevendo e stringendosi, fumando, chiamandosi, toccandosi, parlando.
Fu in uno di quei momenti che l'anno scorso un aficionado da poche ore conosciuto mi disse, tra una birra e l'altra: con i tori nulla è dato per scontato, nulla si può sapere e prevedere.
Mai: con i tori è sempre, sempre un punto interrogativo.
E' vero, è proprio così, ho scoperto e verificato esere così.
Ma quel 26 marzo, quel sabato 26 marzo di tre anni fa ad Arles, la prima corrida fu per me invece un grande punto esclamativo, un duro, doloroso, eccitante e semplicemente incredibile punto esclamativo.

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