martedì 19 ottobre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida





Perché andiamo alla corrida.

Non è per nulla facile spiegare ciò che ci viene più naturale. Potrei senza alcun intento provocatorio rispondere con un'altra domanda o, per essere più precisi, con altre due domande: perché non dovremmo andarci o ancora perché dovremmo chiederci perché ci andiamo?

In realtà non c'è nulla di provocatorio nel rispondere ad una domanda di questo tipo con altre domande; è un po' come se ci chiedessimo perché beviamo un bicchiere di buon vino o ci soffermiamo di fronte ad un bel quadro. Ma il solo fatto che ci poniamo una di queste domande impone che la risposta più semplice e naturale, qualcuno dirà ovvia, "perché mi piace" non sia (o non sia ritenuta) sufficiente.

In realtà "perché mi piace" è una sintesi di un universo di sensazioni, emozioni, ricordi e fantasie molto difficili da districare. Sarebbe compito assai più semplice raccontare perché non andiamo o addirittura perché non dovremmo andare alle corride; che come ognuno vedrà son cose ben distinte: possiamo infatti non andare (ahimè) solo perché quella che la logistica (leggi distanza) ce lo impedisce, così come ce lo impedisce la mancanza di tempo o la mancanza di denaro, mentre nel terreno del "perché non dovremmo andare" troviamo alcuni (pochi per la verità) degli argomenti più illuminati degli antitaurini. Argomenti che evidentemente non condivido ma alla cui libera possibilità di espressione (con Voltaire) sacrificherei la vita. Viceversa mi sembra che i detrattori della corrida siano molto meno disposti non dico già a sacrificare la propria vita (metaforicamente parlando, giacché qui, nel magico gioco fra uomo e toro, l'unico che rischia davvero la propria vita è il torero), ma anche solo a tollerare chi la pensa in maniera diversa. E si badi che già il tollerare non implica accettazione ma solo sopportazione.

Il motivo è forse che, fra le tante grandezze della corrida, vi è un superiore sentimento di assoluta democrazia che, pur nella più accesa differenza delle opinioni, accomuna tutti i partecipanti; non mi viene in mente altra situazione nella quale, essendo certa la morte di uno dei contendenti (del toro quasi sempre, e del torero fortunatamente quasi mai) non c'è odio: non esiste infatti persona al mondo che ami e rispetti maggiormente un animale del torero.

E lo stesso pubblico della corrida, per definizione rumoroso, volubile ed estremamente facile all'irritazione e alla bronca, in realtà ama e rispetta il toro, ammira e idolatra il torero come dimostrano gli infiniti esempi di contestazioni memorabili trasformate da due veroniche e una media in una catartica riappacificazione tra l'afición e il proprio beniamino.

Perché dunque andiamo alle corride. E' difficile spiegarne le ragioni. Forse perché lo stesso concetto di ragione, la tanto glorificata razionalità, non entra nel cerchio magico dell'arena. Più rifletto sulla domanda e più traboccano dal cesto delle motivazioni sentimenti, emozioni, colori, suoni, profumi e poi ancora ricordi e amici e viaggi e incontri.

La corrida, quel mondo che Cañabate indicava come el planeta de los toros e che gli addetti ai lavori chiamano mundillo, piccolo mondo, piccolo universo, è qualcosa che sfugge alle definizioni e alle regole comuni.

Che sia fuori dal tempo è chiaro a chiunque, estimatore o detrattore, vi abbia assistito almeno una volta. Ma fuori dal tempo non significa affatto che sia anacronistica, superata ed antica; tutt'altro, è proprio il suo essere fuori dal tempo (in una sorta di mondo parallelo) a renderla eterna (nel limitato senso di incommensurabile rispetto alla vita umana). E del resto non è forse eterna la grande pittura ? O l'architettura? O la musica? E se per arte intendiamo quell'attività umana che crea emozione attraverso la bellezza, possiamo forse non considerare la tauromachia un'arte? Che poi a noi aficionados tale arte appaia la più grande perché unisce alla creazione che contraddistingue ogni forma d'arte, all'immediatezza tipica del teatro, all'improvvisazione dell'esecuzione musicale il palpabile pericolo cui l'artista, il torero, espone la propria vita, che a noi aficionados la tauromachia appaia come la più grande delle arti questo già rientra nella predilezione che ogni appassionato ha per la cosa, la persona, l'attività che l'appassiona.

Tuttavia dire che andiamo alla corrida perché ci piace e che ci piace perché la corrida è una forma d'arte e che l'arte è ciò che ci regala emozioni attraverso la creazione del bello non sembra per alcuni essere sufficiente.

Per me è invece più che sufficiente. Non sento infatti alcun bisogno di giustificare moralmente la corrida; la corrida, come tutta l'arte, è e dev'essere (e non può non essere) amorale, ovvero al di fuori e al di là dei giudizi di valore. Di un'opera d'arte, così come di una faena, possiamo dire che è bella o che non lo è, che ci piace o meno; ovvero, per dirla con Oscar Wilde, “non esistono libri immorali; i libri o sono scritti bene, o sono scritti male”.

Tralascio quindi qualsiasi considerazione sul fatto che nella corrida il toro (quasi sempre) muoia; qualsiasi aficionado credo infatti che abbia sentito, letto e forse anche dovuto sostenere più volte centinaia di argomentazioni (dalle più ovvie e però non meno veritiere a quelle più alte che sfiorano la filosofia) che spiegano sotto ogni possibile angolazione le motivazione di questo inevitabile esito. D'altra parte se il toro non venisse sacrificato, semplicemente non esisterebbe la corrida. E non esisterebbe il toro.

Perché andiamo dunque alla corrida? Non lo so.

Ma speriamo di farlo ancora per molto tempo.

Suerte!


Cristiano Bricchi


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)



2 commenti:

RONDA ha detto...

"non mi viene in mente altra situazione nella quale, essendo certa la morte di uno dei contendenti, non c'è odio"

una riflessione interessante

Anonimo ha detto...

soprattutto nel caso in cui uno dei due contendenti sia un uomo.
Gli animali tra loro non si uccidono per odio. Gli uomino sì.
Bravo Cristiano, bel pezzo, esprime tutta la "lotta interiore" dell'aficionado.
Marzia