venerdì 21 settembre 2012

Danza di vita e di morte

A proposito di confronti impossibili, Matteo Nucci ci propone questo interessante parallelo tra Manolete e José Tomas, che subito e volentieri pubblichiamo: l'encerrona di Nimes vista da un'altra e originale prospettiva, a confermare che la tauromachia è capace di suscitare ogni volta mille emozioni e sensazioni diverse.
Buona lettura.


Danza di vita e danza di morte - Il parricidio di José Tomas


di Matteo Nucci



Ci sono sere in cui, dai tori, si esce trasformati. È accaduto quello a cui aspira ogni incontro fra uomo e animale: produrre un trasalimento che dà una gioia sconfinata, una sorta di ebbrezza: l’impressione che la vita possa avere la meglio sulla morte. In quelle sere, i fortunati che escono dall’arena, in genere tentano di ripercorrere quanto è accaduto, di risalire alle origini estetiche del loro trasalimento. Chiunque li potrebbe vedere mentre camminano per strada e ridono, aprono le braccia, bevono, sputano disperatamente la coccia delle pipas che si è infilata tra i denti, eppoi cercano di ripetere qualche movimento, qualcuno dei movimenti magici che si sono manifestati come un dono divino nella plaza. Se vedete uomini che escono in questo stato dall’arena, sapete cosa sta capitando loro: sono impegnati in una delle più impossibili delle operazioni concesse ai mortali: fermare un istante con cui credono di aver vinto la morte, cercare di ritrovare il movimento plastico, di inaudita bellezza, quel movimento in cui l’uomo e il toro si sono uniti perfettamente e che è già scivolato via per sempre, è ormai andato a finire tra le estasi fuggevoli perse nell’eternità del tempo, è irrimediabilmente scomparso e non tornerà mai più. Eppure chi esce dall’arena non vuole saperne. Prova con un natural, seguito da un altro natural. Un cambio di mano. Una impressionante chicuelina seguita da una media che sembrava tagliare l’aria e annichilire di silenzio ogni cosa. Chi esce dall’arena non vuole crederci che la corrida sia finita e quella vittoria sulla fine sia passata e non ci saranno televisioni, video, testimonianze o racconti capaci di restituirla. Chi è appena uscito dalla plaza che consacrerà fra i luoghi elettivi di tutta una vita cerca di riprodurre il gesto, il desplante supremo, lo sguardo del matador, i due passi di toreria con cui si è voltato al termine di una serie impressionante. Non ne vogliamo sapere della nostra mortalità. Non vogliamo accettarla.
Ci sono volte in cui poi uno esce dai tori e non prova a ripercorrere neppure un movimento perché se ne sono visti talmente tanti che non si è capaci di ritrovare un solo gesto. Il trasalimento è stato a tal punto feroce da averci condannato alla consapevolezza. Usciamo dall’arena sapendo già che tutto quel che abbiamo visto è perduto per sempre e non lo ritroveremo mai più. Sapendo che dovranno passare anni prima di poter provare qualcosa di simile. C’è un sorriso stampato sulla faccia di chi esce dall’arena che è un sorriso inebetito e triste. Come se tutta quella festa, tutta quella gioia fosse andata a creare un’eternità tale che l’eternità è già finita: siamo mortali, la nostra festa ha sfiorato le divinità, le divinità non ce lo perdoneranno.
Per chi va a i tori si tratta di momenti che creano uno spartiacque, una linea di confine. Questa linea è stata tracciata tre giorni fa, a Nîmes, nella corrida del mattino, con i sei tori affrontati in solitario da José Tomás. Passeranno anni e si sprecheranno litri di inchiostro per tentare di decifrare cosa sia capitato in quelle due ore e mezzo di estasi. Amanti e detrattori. Critici e idolatri. Nessuno potrà evitare di confrontarsi con l’argomento perché non c’è dubbio che la storia della tauromachia ha trovato, nel sole che inondava l’arena romana di Nîmes domenica mattina, una di quelle tappe epocali, forse simboliche, che scandiscono il cammino della storia della corrida moderna. Si tratta indubitabilmente del momento più importante che la breve vita della corrida a piedi ha attraversato dall’inizio del nuovo millennio. E così stanno le cose, che piaccia o meno l’arte di José Tomás, che piacciano o meno i tori che ha affrontato, che piaccia o meno Nîmes e il suo presidente che ha accordato alla mattinata di tori trofei impensabili altrove: undici orecchie, una coda, un indulto. Il momento è storico per molte ragioni, oltre alla portata del trionfo torero: il 2012 è stato l’annus horribilis della corrida, numeri mai così bassi (principalmente per la crisi economica, ma non solo) proprio nella prima stagione in cui la violenza antitaurina ha spinto al divieto in Catalogna. La congiuntura economico-culturale è drammatica e non basta la difesa degli intellettuali. Un grande aiuto per ora, viene dalla Francia e dalla sua ostinazione, dalla capacità di mostrare la profondità culturale dell’arte tauromachica a tutti gli effetti, fino a aver inserito la corrida fra i beni immateriali  del patrimonio culturale del Paese. Proprio in Francia, anziché come era solito a Barcellona, è venuto a chiudere la sua brevissima stagione (tre corride) il più misterioso e amato fra i toreri contemporanei, l’unico che fa sempre il tutto esaurito e che porta alle ferias cui partecipa un enorme indotto economico. La straordinaria corrida di José Tomás è arrivata dunque nella giornata più simbolica.
Ma saranno altri a raccontare tutto questo. Ci sarà tempo per inserire la data tra i momenti di svolta della corrida, da un punto di vista taurino e da un punto di vista politico, da un punto di vista sociale e antropologico e da un punto di vista filosofico. Contentiamoci, per ora, di capire almeno un po’ il motivo per cui domenica 16 settembre uscivamo dall’arena romana inebetiti, vinti, distrutti da una felicità improvvisamente mutuata in tristezza, una specie di assenza e di vuoto, l’effimero del sublime che già ci faceva mancare la gioia di una miracolosa vittoria sulla nostra natura finita. Cosa era successo nell’arena?
Le cronache possono raccontarci, secondo per secondo, la varietà con cui José Tomás ha affrontato i suoi tori. I gesti con il capote, ogni volta diversi. I movimenti della muleta, ogni volta diversi. Le cronache possono raccontarci come il torero abbia conosciuto ogni volta gli animali con cui si trovava a confrontarsi, la sua fermezza nel voler penetrare il cosiddetto “mistero del toro”, la sua capacità di accogliere l’animale e andarne a cercarne subito l’anima per portarla in superficie, svilupparla, farla crescere fino al massimo delle sue potenzialità. Le cronache ci raccontano tecnicamente la natura delle cinque stoccate con cui José Tomás ha ucciso, senza mai sbagliare il primo colpo. Io, però, ora voglio parlare dell’unica stoccata simbolica, la stoccata mancante, quella che racconta esemplarmente le altre cinque stoccate, la spada con cui José Tomás non ha ucciso nessun toro, ma ha ucciso suo padre, il suo padre elettivo: Manolete.
Tutti sanno il rapporto ideale che lega José Tomás a Manolete. È un rapporto che alcuni sono arrivati a considerare alla stregua di un’ossessione. Un’ossessione che gira intorno alla morte. Tecnicamente, per quel che riguarda l’arte, il centro dell’eredità di Manolete è costituito da quello che in generale viene chaimato “toreo verticale”, ossia quell’austerità, quell’immobilità longilinea e apparentemente distante dalla terra, quell’aura ieratica che caratterizza ogni gesto di un corpo che pare aereo, desomatizzato, quasi spiritualizzato, salvo vederlo sanguinare o volare dopo il colpo che esso riceve dalle corna di un toro. Nei particolari, l’eredità del Monstruo si manifesta nell’esaltazione di movimenti che in altri casi e in altre circostanze sono valutati come poco significativi, movimenti – sembra un paradosso o un ossimoro – segnati dall’immobilità: su tutti, l’estatuario e la manoletina. Si tratta di due suertes che Manolete mutuò dal toreo comico. La prima, tutta fondata sull’immobilità del fare la statua, nacque dal gesto ridanciano del celebre Don Tancredo López quando, dipinto di bianco, si fingeva una statua nell’arena che il toro neppure vedeva. La seconda fu inventata da Rafael Dutrus detto Llapisera, uno dei più noti esponenti del toreo comico. Inizialmente erano mosse immaginate per il ridicolo. Con Manolete esse raggiunsero le vette della tragedia. Il grande torero, per raggiungere l’altezza tragica del confronto con la morte, deve saper sprofondare nelle bassezze del ridicolo e del grottesco, per riplasmarle. Manolete e José Tomás sacerdoti ieratici della tragedia cui giunge chi sprofonda nella commedia. Questo, stando al toreo nelle sue figure. E del resto, in assoluto, l’eredità che José Tomás ha colto di Manolete sta proprio nel rapporto profondissimo con la morte, nella sfida alla morte, nella visione tragica della morte dell’artista che ha visto il ridicolo della vita, ossia una danza di seduzione attorno alla morte che non sta soltanto nella ricerca di quella stoccata lenta e perfetta, con cui l’uomo si offre alle corna del toro per ucciderlo mettendosi completamente alla sua mercé. È qualcosa che ha a che fare con l’essenza del mestiere di torero e che semmai abitava già nel detto di Belmonte quando commentò con una delle sue geniali battute: “Se vuoi toreare dimentica di avere un corpo”. Il corpo José Tomás lo lascia in hotel, come si ripete spesso citando una sua risposta, mormorata a mezza bocca quando ancora non aveva deciso di smettere di parlare al pubblico per sempre. Abbandonare il corpo e il ridicolo che esso si porta appresso. Al punto che quel corpo José Tomás lo ha offerto più volte al toro in una sfida totale che ha portato spesso i critici a accusarlo di un atteggiamento suicida ingiustificato, o addirittura di tremendismo.
Tutto questo, a Nîmes, è scomparso. E non tanto perché nell’arena romana José Tomás non si è mai lasciato toccare dalle corna di uno dei sei animali (come del resto è accaduto nelle altre due corride della sua brevissima stagione). Ma perché ha ucciso i suoi tori percorrendo una strada nuova su cui nessuno prima lo aveva visto procedere. È una strada che deraglia dal corso che la storia della corrida prese quando Manolete decise di usare una finta spada per gestire la faena. Reduce da un infortunio al polso, il Monstruo di Cordoba chiese il permesso di usare un bastone di legno che simulava la spada ma ne modificava completamente il peso, allontanandosi drasticamente da quei tre chili che gravavano il lavoro del torero di un carico a volte fisicamente insostenibile. Era la data di nascita dell’ayuda, la spada che, più tardi in alluminio, ha assistito pressoché tutti i toreri nel loro lavoro con l’animale prima di usare la spada de verdad per l’uccisione. Il cambiamento è stato enorme. Non soltanto perché il torero ha potuto usare uno strumento più leggero. Quanto perché si è creato un momento di rottura all’interno della perfetta unità artistica della faena, un momento in cui il torero si ferma, cambia spada, torna nell’arena, mette in posizione il toro con passi di circostanza, per trovare il terreno giusto e le condizioni e la posizione dell’animale più adatti alla stoccata. Una lacerazione nella perfetta unità artistica della faena che domenica mattina José Tomás ha deciso di mettere in discussione per sempre.
Non è stata una scelta tecnica. Non ha toreato, José Tomás, con la spada de verdad, come fa per esempio Juan Mora, osannato autore di una straordinaria stoccata a Madrid il 2 ottobre 2010, un’uccisione che ha lanciato in piedi anche i puristi e ha fatto gridare al capolavoro assicurando a Mora una stagione di contratti e successi ovunque, in cui però il torero non è mai riuscito a ripetersi. No, José Tomás ha scelto un’altra strada. Ha ucciso il proprio padre uccidendo diversamente i suoi tori. Mai si era visto un torero mettere costantemente in posizione l’animale come è capitato domenica scorsa con passi leggeri, perfetti, passi con cui l’uomo non pensava affatto a spostare il toro sul terreno adatto o a dare all’animale il modo di mettere in parallelo le zampe anteriori. Passi con cui il torero danzava attorno al toro, danzava attorno alla vita. Il suo corpo verticale, austero, ieratico stavolta non era più un corpo aereo e insussistente. Era corpo in cui riluceva la vita. José Tomás e il toro. Uomo e animale in un’unità perfetta di derechazos e naturales, un’unica cosa fino a fermarsi, guardarsi negli occhi un’ultima volta, prima che il torero non cominciasse a guardare invece il buco degli aghi, l’ hoyo de las agujas, dove inserire la spada. Dalla danza di morte alla danza di vita. È stato questo, lo spettacolo sublime, esemplare di tutta la perfezione artistica che ha brillato sul Colosseo francese. E questa perfezione è arrivata con l’indulto.
Ora, nessuno può mettere in dubbio che l’indulto di domenica scorsa sia stato esagerato e, secondo le regole tauromachiche, fuori luogo. Ma all’apice di una festa così esaltante tutto è comprensibile. E tuttavia, aldilà di questa comprensione dovuta al delirio della festa, il fatto unico e sconvolgente è che quell’indulto sia arrivato al termine di una faena che José Tomás ha lavorato senza spada. Niente ayuda. Dall’inizio José Tomás ha lavorato il toro con la sinistra, eppoi con la destra, senza portare con sé in pista la spada. Gli appassionati sanno cosa significhi. Significa perdere il mezzo con cui il torero può ampliare la superficie della muleta per farsi passare il toro più lontano dal fianco destro. Significa fare fuori lo strumento che cerimonialmente i torero impugna sempre nella destra e che per questo fa sì che sia chiamato “destro”. José Tomás domenica scorsa con il suo quarto toro non ha portato la spada di alluminio, ha lasciato nel callejón lo strumento che inventò Manolete e ha lasciato per sempre dietro di sé il Maestro che gli è stato padre. Fortuna allora che quando un uomo ha gridato, proprio dopo l’indulto, la sua richiesta: “El pasodoble de Manolete”, nessuno abbia voluto ascoltarlo e solo un ragazzo ha ribattuto sarcastico: “el pasodoble di José Tomás!”
Difficile sapere ora su quali strade andrà il torero di Galapagar. La sua danza attorno alla morte ha cambiato segno. Molti dicono sia stata la ferita mortale a cui è sfuggito miracolosamente nel 2010 a Aguascalientes. Molti pensano che sia stato il figlio avuto dalla sua compagna l’anno seguente. E certo, per i biografi potrebbe essere uno straordinario segnale: il figlio che Manolete non ebbe mai con Lupe Sino, l’attrice che la madre del Monstruo, Doña Angustia, odiava e con cui – si dice – il torero sarebbe fuggito in Messico qualche giorno dopo la ferita mortale di Linares, il 27 agosto del 1947. Il figlio che avrebbe portato José Tomás al definitivo parricidio. Ma è inutile tentare la strada delle interpretazioni psicologiche. Certo, domenica, si è assistito a qualcosa di epocale, comunque la si voglia vedere. E forse il momento che più lo ha dimostrato è stato un indulto tecnicamente ingiusto in cui però si è sentita tremare l’ebbrezza dell’estasi umana quando gli uomini credono davvero di aver vinto la morte eliminandola dal mondo, anche dal mondo animale, anche dal toro che con la sua morte, una morte animale non razionale, dovrebbe lasciare all’animale razionale, l’uomo, la possibilità di trionfare sulla propria mortalità. Senza spada, il torero ha incontrato il suo toro e lasciando cadere simbolicamente la spada in terra il torero ha lasciato correre verso le stalle il suo toro. Senza spade finte il torero ha ucciso il suo Maestro e forse lo ha superato, e certo se ne è allontanato per sempre. È impressionante, infine, il nome che portava il toro di Parladé che gli aficionados hanno cominciato a mormorare e ripetere nel momento stesso in cui l’animale rientrava nella porta del toril. 501 chili, il toro nero ancora vivo nonostante la morte che si supponeva certa il 16 settembre del 2012 alle 12 e 45, portava sul nero del suo mantello un nome che si fa fatica a pronunciare tanto è roboante e significativo: Ingrato.

 (foto Fiore Galetti)

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Io di tori capisco poco, pero' credo di aver capito la diversita' di visioni nei vari contributi (post e commenti) e nutro profondo rispetto per tutte le posizioni, anche quelle molto trancianti. Vorrei pero' dire una cosa. Essendo un musicista mi permetto un esempio "off topic": Quando usci' l'ultimo disco di De Andre' (Anime Salve) io mi aspettavo un altro passo verso la ricerca, poetica e musicale, volevo novita', volevo che mi aprisse altri orizzonti nuovi. Lo pretendevo da lui, perche' sapevo che era il piu' grande. Volevo che l'artista non si ripetesse, che proseguisse nella sua ricerca. Bollai quel disco come ripetitivo, come poco coraggioso, poco innovativo. riprendeva suoni, melodie e poetiche gia' viste. Lo giudicai male per questo. Spogliato delle mie aspettative, anni dopo lo riascoltai ed e' (forse) il piu' grande tra i capolavori di De Andre', una vera summa della poetica e della ricerca musicale. Altro che passo indietro. Me ne ricordo sempre di quell'errore di valutazione dettato dal mio integralismo, dal mio - se vogliamo - moralismo, che alla fine mi si ritorceva contro. Voglio dire: ci rimettevo io. Era limitante. E' per altro difficile liberarsene. Ma credo che giovi. Scusate se ho detto cazzate, mi sento troppo umile in materia per discutere con voi! Pero' ci tenevo, anche perche' l'invidia per chi c'era e' una brutta bestia!

Francesco

juanito ha detto...

Bellissimo, poetico e carico di malinconia.

bravo Matté.. dovresti scrivere solo di tori.

un abrazo

juanito

RONDA ha detto...

Francesco grazie per il tuo intervento, che però non condivido.

La metafora è fin troppo chiara, ma tu confondi l'espressione di un fatto di emozione e sentimento individuale (cosa di per sé non opinabile) con un esercizio di cieco integralismo e vis polemica moralizzatrice.
Per quanto mi riguarda non c'è niente di limitante nell'esprimere, su queste pagine, le impressioni vissute domenica mattina, le emozioni provate e i sentimenti contrastanti che mi hanno attraversato.
Casomai è limitante sottoporre tutto questo a severo e unilaterale giudizio.

Su De Andrè secondo me arrivi a una conclusione inesatta: che Anime Salve sia il suo grande capolavoro lo dici tu, è così per te, ma non può essere cosa universalmente "vera".
Per quanto mi riguarda il suo capolavoro è invece il disco dell'indiano, e nulla né nessuno possono dirci che la ragione è dell'uno o dell'altro.

A presto,
ciao

Anonimo ha detto...

Matteo estoy de acuerdo con juanito, aun tengo tu libro entre mis manos y lo disfruto al maximo aunque tengo que ser sincero y decirte que hago muchos esfuerzos por entender el mundo taurino desde el punto de vista de un "Italiano", es verdad Jose Tomas no es uno de "los Elejidos" se que es un torero que despierta tu admiracion y que lo conoces muy bien. Yo estaba en Sevilla la tarde de Manzanarez y "Arrojado" a decir la verdad me parecio injusto el indulto, esa tarde la estocada fue para la plaza de Sevilla que ha visto tantos toros extraordinarios morir en la arena, Volviendo a lo de Jose Tomas y recordando las palabras de Curro Romero donde decia que Su sueño era cuajar un toro enteramente con el capote. Viendo las imagenes de Nimes me viene a la mente la palabras de Romero, yo muchas veces en mis tardes de plazas imaginarias con toros que solo existen en nuestros sueños he dibujado muletazos al natural con la mano destra, nunca pense ver un muletazo sin espada de la mano de uno de los toreros mas ortodoxos de los ultimos tiempos quizas el Ultimo torero de Epoca y mucho menos en una plaza de primera! comprato tu opinion pero aqui entre nosotros esa tarde hubo "Duende Y Aroma" de un toreo nunca visto y dificil de explicar, porque como yo digo de esto se trata la corrida "Misterio y embrujo", un misterio que solo sabra Jose Tomas un Embrujo que se apodero de muchos. en mi humilde opinion esa tarde de Nimes Tomas se sintio Dios y es posible que fuera el mismo Manolete Resusitado. mostrandonos una nueva suerte que practico en el campo del cielo!!!! Un fuerte Abrazo desde Venezia Matteo (eres el mejor) Javier el Chamaco

Anonimo ha detto...

In realta' non volevo giudicare ne' tanto meno confessarti (visto che l'atto di dolore l'hai gia' detto a Dio JT), ma solo chiedermi e chiederti se e quanto le proprie aspettative non possano anche nella corrida come nella musica inficiare la fruizione dell'opera d'arte o dell'evento in genere cui si assiste. I brividi che non hai provato non te li ridara' piu' nessuno, ma dato che tu una spiegazione al fatto di non averli provati l'hai fornita, dicendo (anche) che ti aspettavi piu' dai tori, mi chiedo se alla fine non sia tu che ci rimetti... tipo spogliarsi della propria attitudine critica per potersi lasciare andare alle emozioni, anche perche' credo che piu' uno ne sa, piu' rischia l'insoddisfazione... o no? (io figuriamoci mi sono emozionato ad una corrida con una trentina di pinchazos, e 5 descabelli...) mi pare che altri esperti, oltre a Nucci, se la siano goduta di piu', e non erano (tutti) giornalisti embedded o banderilleros prezzolati. Certamente, Nucci docet, esistono i toreristi e i toristi, JT non e' forse molto amato dai secondi, e - leggendo i vostri resoconti - pochi sono i dubbi di collocazione tra te e Nucci in questo ideale schema, ma la situazione ti assicuro e' del tutto simile a certi spettacoli anche musicali, nei quali qualche integralista pur animato da giusti intenti e profonda passione e' pronto, proprio in nome della propria passione, a fischiare se non buttare le monetine anche al migliore De Gregori etc... (per poi 30 anni dopo esaltarsi per Dente o Brunori). Ripeto non ho un atteggiamento giudicante ma solo proporre una lettura per cercare di capire una mancanza di soddisfazione che vista da qui, da chi non c'era, pare inspiegabile...
per quanto mi riguarda il miglior disco di De Andre' cambia sempre perche' quando l'arte e' vera e' materia viva e parla sempre a te che cambi, - forse, dovendo, direi "non al denaro" - ma intendevo che A.S. non era un disco "copia" bensi un disco "summa" (aggiungendo peraltro un (forse) a "il capolavoro"). Ma non mi dilungherei sulla differenza tra le due definizioni. L'indiano e' anche per me uno dei vertici (per quanto, a essere pignoli, ricalchi Rimini).
Concludo aggiungendo che poi queste mie considerazioni valgono davvero poco, e che anzi vi ringrazio per dischiudermi questi mondi, che le corride sanno suscitare, alimentando in me la passione e la voglia di capire sempre di piu', gia' sapendo che non riusciro' mai a dichiararmi davvero soddisfatto.

ciao
Francesco

Anonimo ha detto...

Una domanda: è certo che JT a Nimes non abbia fatto uso della espada de ayuda (come afferma Nucci)? Da ciò che ho visto in rete ( http://www.taurophilos.com/2012/09/jose-tomas-en-nimes/ ) sembra invece di si.
Qualcuno potrebbe chiarire?
Grazie

Anonimo ha detto...

Il toro indultato è stato toreato sin ayuda fino al momento della morte quando tomas ha preso l'estoque de verdad che poi non ha utilizzato.

Angelo ha detto...

Grazie Matteo! La tua scrittura avvince sempre e aiuta a ricordare le emozioni più belle.

RONDA ha detto...

Innanzittutto mi corre l'obbligo di tranquillizzare tutti: sto bene, sono perfettamente sereno e felice, e benché in molti si siano chiesti come fosse possibile (quasi che l'entusiasmo o l'emozione, quando si parla di JT, debbano essere necessariamente condivise e univoche), dalla corrida di domenica 15 sono uscito pieno e incredulo per tanta perfetta bellezza, ma senza quei brividi sulla pelle conosciuti altre volte, e ciononostante non sono stato vittima di forme depressive e la notte dormo appagato e senza tormenti.
Mi sorprende che le mie sensazioni abbiano destato tanta incredula curiosità, io mi sono limitato a raccontare quello che mi è successo all’arena, e generalmente mi è sempre parso molto logico non sindacare le emozioni, da qui dunque nasce il mio sentimento di straniamento.
Insomma, nessuno si strugga: i brividi che non ho provato non li rimpiango, e già altre serate all'arena me ne avevano regalato di generose scorte, il saldo è fortemente in positivo.

Al di là di parecchie ore di sonno e di un pezzo di benessere epatico non credo di averci rimesso nulla, Francesco, mi stupisce che si possa pensarlo, e anzi è vero il contrario: il fine settimana è stato meraviglioso, in viaggio e alla festa con gli amici, e la domenica mattina ho assistito a un'esibizione antologica di toreo puro e perfetto, ed è stato un privilegio potere essere là. Me ne ricorderò, sono sicuro, per sempre.
Cose che, d'altronde, ho scritto su queste pagine.
Certo, se dire che non ho avuto i brividi che hanno avuto altri spettatori significa automaticamente far pensare (anche a chi non era là) che io ci abbia rimesso qualcosa, allora mi spiace ma non riesco più a seguire la ratio del ragionamento.
L’idea di spogliare della propria attitudine critica per lasciarsi andare alle emozioni ha un suo fondamento, lo capisco, ma non lo condivido: non capisco perché una persona dovrebbe rinunciare all'esercizio critico, soprattutto e principalmente quando si parla di assistere alla morte di sei tori.
Resta comunque interessante lo spunto che proponi: in quale misura la conoscenza spinge all’insoddisfazione?
Sinceramente non ho una risposta, e in ogni caso il meccanismo potrebbe essere applicato ad un numero di campi pressoché infinito. Per fare il primo esempio che mi viene in mente: un polistrumentista si guasta il piacere di godere di un concerto, perché magari al suo orecchio arrivano imperfezioni che l’ascoltatore medio non riesce a cogliere, oppure e nonostante questo può comunque vibrare di emozioni per una qualche interpretazione, che arrivi dal più grande maestro o da un musicista di strada, o proprio in virtù della sua preparazione giunga a un livello di partecipazione impossibile agli altri?
Personalmente non credo che le (poche) cose che so sui tori mi rovinino il piacere di andare e stare all’arena: casomai è il contrario, pomeriggi altrimenti inutili e noiosi sono stati salvati proprio dalla fortuna di aver potuto cogliere un dettaglio, o un comportamento, sul quale ho riflettuto e pensato.

RONDA ha detto...

(prosegue)

Se altre persone, come dici tu, se la sono goduta di più, io non posso essere che felice per loro, ma per quanto mi riguarda la cosa non toglie valore a quello che ho scritto e ho vissuto, che peraltro non è assolutamente in antitesi, sarebbe un errore pensarlo.
Al di là del fatto che c'è gente che si entusiasma per eventi o cose che io nemmeno conosco (dai concerti di Lady Gaga alle recenti evoluzioni della meccanica quantistica, fatti dai quali io invece sto accuratamente lontano, nel primo caso per buongusto e nel secondo per buonsenso), nei tori è inutile e stucchevole cercare una verità ultima, a maggior ragione quando si parla di emozioni e reazioni individuali.
Basterebbe provare, una qualsiasi volta, a intervistare qualche aficionado all’uscita dall’arena: sono pronto a scommettere che, sentiti cento, saranno cento corride diverse quelle raccontate.
Dunque è perfettamente giusto e normale che un numero enorme di persone, domenica 16, siano andate tra gli angeli, ed è altrettanto perfettamente giusto e normale che ci sia qualcuno che, come me, non ha sentito quei brividi che solo il toro con casta e serio gli sa dare.


La questione torismo/torerismo, per quanto mi riguarda, è sempre e comunque mal posta e non fa altro che spostare la riflessione in un vicolo cieco, e credo che spesso questo avvenga strumentalmente.
Per quanto mi riguarda non è questione di essere ultras in una delle due curve: il punto è che senza un toro con casta, integro e serio, la corrida perde fascino, emozione, e in molti casi anche significato e giusiticabilità. Dopodiché, lo ripeto ancora, chiunque è libero di preferire una serie di veroniche plastiche e rotonde ad un’ennesima entrata al cavallo, ma la premessa è il toro.
Negare questa premessa non significa essere toreristi o toristi, significa non essere aficionados.
Ho visto Morante a Bilbao, nel 2011, Morante che non è esattamente un gladiatore, e ancora oggi quando ne parlo con mia moglie siamo travolti dalla pelle d’oca e pietrificati dai ricordi: la cosa non mi è successa domenica 16, e non penso di dover recitare il mea culpa (ho già sconfinato in un terreno non mio con l’atto di dolore, d’altronde).

Le monetine a De Gregori non le ho mai lanciate, non sono un ottuso e violento integralista, mi limito a non comprare i suoi dischi e a impedire con tutte le mie forze che me ne impongano l’ascolto in casa.
All’arena le (rare) volte che ho fischiato è stato quando mi sono reso conto che in pista si mancava di rispetto al toro: un conto è andare ad una corrida e uscire insoddisfatti, e magari anche dirlo agli amici per poterne parlare, un conto è andare ad una corrida che si presume non ci entusiasmerà e continuare a fischiare e urlare, rovinando la giornata agli altri spettatori, e tirando monetine o altro.
In questo secondo caso può avere qualche logica domandarsi “ma perché sei venuto all’arena”, nel primo invece la domanda non ha nessun senso.

Grazie per i tuoi contributi al blog,
un saluto
ciao