martedì 16 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (prima parte)



Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’odore dei sigari misto all’odore dei cavalli quando si arriva alla plaza. Nulla è come lo strepito festante che accompagna l’inizio di una tarde. I venditori di noccioline e bruscolini gridano mentre uomini e donne distribuiscono il programma e offrono ventagli di carta o visiere per ripararsi dal sole e intanto gridano i venditori di sigari e gridano le venditrici di leccornie dai colori artefatti e gridano tutti i venditori di cuscini del mondo. Ci sono quelli che hanno cucito i cuscini in casa, forse con una macchina arrangiata, e le cuciture sono storte ma nessuno potrebbe vederle, loro sbattono i cuscini l’uno contro l’altro e il rumore è un rumore sordo che sembra diventare una specie di eco: almohadillas, almohadillas, almohadillas. Le signore si avvicinano protette da occhiali scuri e i ragazzi dicono il prezzo e le signore cercano di contrattare: il cuscino potrebbero comprarlo anche dentro la plaza ma suvvia, ragazzi, fateci un piccolo sconto, ci piace il cuscino giallo e rosso, ma tre euro non sono un po’ troppi?

Era la feria de abril, credo, perché doveva aver piovuto e adesso l’aria era fresca e il sole leggero e la viuzza che sale alla Maestranza da calle Adriano, lì accanto al negozio di cappelli e souvenir, erano scalini cosparsi dal terriccio dell’arena, il terriccio che viene fuori dall’entrata del patio de caballos e l’odore era fortissimo e noi cominciammo a mimare naturales e derechazos, finalmente si ricominciava, finalmente si tornava ai tori, la stagione per noi riapriva davvero. Avevamo mangiato gamberetti alla Bodega San José, avevamo bevuto bicchieri di vino bianco eppoi qualcuno ordinò un piattino di formaggio e del vino tinto, così cominciammo a bere altro e un vecchio che era lì vide i biglietti che avevamo comprato dal reventa perché la corrida era di quelle buone e era già tutto esaurito fin dal mattino e ci prese in giro, ci disse che italiani così non ne aveva mai visti e volle offrirci da bere e disse che prima della corrida, prima di una corrida come quella, non si poteva bere altro che whisky e cola e allora ordinò per noi, ci offrì sigarette bianche da un pacchetto di Ducados e ci raccontò di quando aveva rischiato di far fallire il suo matrimonio per colpa di Curro Romero. Curro Romero, lo conoscete? C’è la sua statua lì davanti alla Maestranza. È ancora vivo, ma è già una statua, è un mito, è uno stato d’animo, una categoria dello spirito.

Ci sapeva fare, con i racconti, il vecchio. Disse che, quel mattino di trent’anni prima, la corrida che si aspettava era critica. Per due tardes Curro Romero si era quasi rifiutato di toreare, lì, nella sua Siviglia, la sua patria, il suo mondo. Erano state due umiliazioni per tutti i suoi sostenitori, i cosiddetti curristi, mentre gli anticurristi gioivano e dicevano: vedete? Questo è il vostro torero, questo è l’uomo, ossia il mezzo uomo che senza i suoi mezzi tori non vive, non esiste, non torea. Noi eravamo affranti e per giorni non riuscimmo a darci pace. Quando Curro Romero faceva così per noi era una tragedia, era come se tutto stesse per crollare, come se il mondo stesse per finire, come se la vita non avesse più senso. Vi potete immaginare mia moglie? Vivevamo a Triana, dove sono nato, e in quei giorni non ero stato più un uomo, non ero più me stesso, capite? Dico con mia moglie, eh! Semplicemente c’ero e non c’ero e faticavo a essere quel che posso essere e non riuscivo a non pensare a Curro e alla sua tragedia, la nostra tragedia, fino a quando il sonno mi portava con sé. Poi si venne a sapere della sostituzione. Un torero, non mi ricordo più chi, fu ferito e per sostituirlo fu chiamato Curro Romero. Avevamo un’altra possibilità, l’ultima qui a Siviglia, per rivederlo davvero e temevamo tutti il disastro definitivo. Mia moglie seppe e mi disse: stavolta non ci sono santi, o me o Curro Romero. Se domenica vai ai tori, a casa non mi trovi più. Le feci la promessa. Per tutta la settimana pensai a come fare per ingannarla. I biglietti li avevo comprati subito e i miei amici mi volevano con loro fin dal mattino ma dissi che ci saremmo visti direttamente ai nostri posti del tendido. Non avevo un piano, nessun piano.

Arrivò la domenica, era un giorno bellissimo e il sole incendiava calle Pureza e io e mia moglie uscimmo presto e passeggiammo in giro per la città e, di ritorno, quando era ormai l’una, passammo dalla chiesa di Santa Ana e ci fermammo al bar e le proposi di mangiare caracoles ché era arrivato il periodo delle lumache e lì al bar di Santa Ana le lumache sono le migliori di Siviglia. Ci mettemmo al sole e mangiammo eppoi prendemmo qualcos’altro, non ricordo cosa, bevemmo, mangiammo altro ancora e bevemmo eppoi prendemmo un caffè e un brandy. Pensavo che si sarebbe ubriacata e si sarebbe addormentata ma mi sentivo talmente felice e talmente ubriaco io stesso che i miei piani improvvisi non valevano più nulla e continuavo a bere brandy, almeno quello riuscivo a farlo, non prendevo whisky e cola pensando che sennò mia moglie avrebbe capito tutto, continuavo a ordinare brandy e già immaginavo la sera e mi dicevo che niente sarebbe stato bello come la corrida e quasi avrei voluto gridarlo a quella donna che amavo così tanto e condividere con lei quella felicità. Tornammo a casa abbracciati, i ragazzini giocavano a pallone su calle Betis e noi guardavamo il Guadalquivir e ci baciavamo e io guardavo la plaza e mandavo i miei baci anche alla Maestranza e vedevo il colore ocra e bianco delle sue mura e già sognavo la cappa di Curro Romero. I ragazzini ridevano mentre ci baciavamo e cercavano di guardare le mie mani e il suo corpo, mia moglie era bellissima, io la stringevo, loro guardavano, lei lo sapeva e le faceva piacere, finché non la presi per mano e corremmo a casa e a casa? Be’ non vi racconto nulla di questo, potete immaginarvelo, fu una cosa pazzesca, talmente pazzesca che entrambi, nella felicità, nel caldo, nell’ubriachezza e nel piacere, sotto la pala che muoveva aria dal vecchio soffitto, crollammo addormentati. Mi svegliò lei alle cinque e mezza, col caffè, dicendomi “amore, amore, svegliati” e io la respingevo e lei insisteva “amore, amore svegliati, sennò ti perdi la corrida”. Balzai su, volevo piangere di felicità: capite cosa significa avere una moglie? Una moglie vera? Lei sapeva tutto. Aveva capito ogni cosa. E io corsi via. E sapete come andò? Potete immaginarvelo. Curro Romero entrò nell’arena tra fischi e ovazioni eppoi appena aprì la cappa con il suo primo toro fu subito silenzio, fu silenzio assoluto, e tutti capirono, anche gli anticurristi, che la magia era tornata. Fu una tarde epica, qualcosa di incomparabile con qualunque altra cosa mi sia capitata nella vita. Dunque ora andate, andate, bevete con me, ecco, brindate, ci vediamo dopo magari, oggi sarà una bella corrida, ma io non vengo, no, io non vengo, io non vengo più.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come lo scintillio dei lustrini sul traje de luces quando comincia a scendere la sera. Nulla è come lo strambo suono del clarino a scandire gli atti della tragedia. Il toro entra in pista e pare una furia spaesata. “Ha guardato a destra, non può essere manso” dice un tipo accendendosi l’ennesima sigaretta e il suo amico gli fa “superstizioni, galoppa, non vedi?” Gli zoccoli strusciano sull’arena, si sentirebbe anche il fruscio di un pezzo di carta strappato tanto è il silenzio che è sceso sulla piccola plaza, nessuno dice nulla, perché tutti studiano l’animale e si sentono solo i rumori delle cappe che i subalterni del matador tirano fuori dal burladero incitando il toro a correre in circolo, poi forse si sente anche il passo del Maestro e di sicuro il rumore della cappa che si apre e diventa un lenzuolo davanti al corpo del torero, il lenzuolo che Veronica si dice abbia offerto a Cristo mentre camminava sulla strada del Golgota. Il toro osserva la cappa come forse Cristo, sanguinante, osservò il panno e ci affondò il viso in cerca dell’ultima freschezza. Il toro corre verso il panno, getta le corna per colpire la vita che crede di aver visto con i suoi occhi di miope, prima un corno poi l’altro, uno scatto repentino, ma non trova che freschezza, la freschezza dell’inganno che scivola via mentre il corpo dell’uomo, la vita che il toro non vede, si muove lentissima in un volteggiare sognante. C’è un’anima che percorre gli spalti e, comandata da una specie di dio, fa sospirare un olé lunghissimo, estasiato.

Era l’anno che guidammo da Albacete a Murcia lungo la statale che corre parallela all’autostrada. Non so più chi l’avesse proposto ma c’era tempo, nessuno ci correva appresso: perché allora non prendere la strada più bella? Perché non viaggiare tra i campi coltivati, sulla strada dritta che si perde in saliscendi interminabili, il verde percorso da sprazzi di vento che sembravano disegnare striature metalliche sulle colline intorno, eppoi i campi arati, le zolle rivoltate e quel colore rossastro che pareva quasi sanguinante? Ci fermammo a Tobarra perché sulla mappa accanto al paesino c’era una specie di ferro di cavallo, e quel ferro di cavallo sulla cartina stradale indicava la plaza de toros e volevamo vedere la plaza de toros di Tobarra, era sabato, non era neppure l’una, di questo sono sicuro, perché cominciavamo ad avere fame e quando arrivammo per un attimo ci parve un sogno l’odore che usciva dalla porta accanto alla taquilla. Non ci aspettavamo certo di poterla trovare aperta e si sentiva un profumo di cucina esaltante e non era affatto un nostro delirio. Ci affacciammo. Qualcuno gridò qualcosa, chiedemmo chi ci fosse in giro e intanto guardavamo le rifiniture perfettamente dipinte di rosso e il legno elegante e la sabbia compatta sotto quella luce giallognola che filtra attraverso i materiali bianchi che vengono usati quando si decide di coprire certe plazas de toros e salvare gli spettacoli dalle possibili piogge. Certo non sapevamo che la plaza di Tobarra fosse coperta, ma in quel momento ci importava poco. Arrivò un omone con un lungo mestolo di legno in mano, ci chiese con fare burbero cosa volessimo e, quando capì che volevamo visitare la plaza, disse: andate dove volete. Ma il profumo era qualcosa che avrebbe fatto resuscitare i morti e noi percorremmo gli spazi destinati all’orchestra distratti, visitammo il palco presidenziale distratti, scendemmo i gradoni del tendido fino al callejon dove stazionavano i toreri e la loro cuadrilla sempre distratti e finalmente andammo verso il toril dove su un enorme fornello portatile collegato a una bombola stava la grande pentola metallica in cui sfrigolavano pezzi di carni, pollame e altro galleggianti nell’olio in cui l’omone versava scatole di pelati. Ci spiegò come avrebbe fatto la paella, ci presentò il fratello, il guardiano della plaza, e ci indicò la figlia e la moglie e ci disse che di sabato mangiavano lì e che le corride erano programmate a febbraio e agosto e che a febbraio spesso pioveva, per questo avevano deciso di coprire la plaza, dieci anni prima. Ci disse di come, durante l’anno, curavano ogni dettaglio di quel monumento al toro e ai toreri, ci raccontò della cura maniacale con cui il fratello viveva per la plaza e ci offrì birre e brindammo, bevemmo, raccontò di toreri e tori, e infine ci invitò a venire il prossimo sabato a mangiare con loro, avrebbe preparato una paella più consistente, stavolta non erano in programma le nostre quattro bocche ma ci avrebbe volentieri fatto assaggiare anche oggi, solo che per darci davvero da mangiare avrebbe dovuto saperlo con il giusto anticipo. Non la finiva di scusarsi, era davvero dispiaciuto. Intanto lasciò scivolare nel pentolone calamari, vongole, cozze e gamberi e l’odore nel coso taurino di Tobarra fu tale che cominciavamo a essere impazienti e bevemmo ancora e brindammo e salutammo, saremmo tornati, saremmo tornati di sicuro, ma non il sabato dopo, il sabato dopo dovevamo già essere di ritorno in Italia, forse a febbraio, forse a febbraio per le prime corride dell’anno, salutammo e augurammo buon pranzo, vennero tutti a dirci ciao sulla grande porta e ci spinsero a un ristorante di Hellin sulla statale pochi chilometri dopo Tobarra e ci fermammo lì, si chiamava El Albero e il motto era “Aperitivos y comida con trapio”, il trapio, l’eleganza del toro.

Mangiammo a El Albero fra manifesti di corride, tori attaccati alle pareti, traje de luces donati da celebri matadores, mangiammo nel locale dell’aficiòn del luogo e mangiammo commuovendoci di fronte a bistecche alte tre dita, scottate sulla brace e ricoperte da scaglie di sale grosso, bistecche che facevano venire i brividi, carne de gallina disse il proprietario ridendo, la stessa carne de gallina che può venire assistendo a una faena memorabile, un toro straordinario, ma stavolta la carne de gallina, la pelle d’oca, era per la più buona bistecca che mangiavamo da secoli e bevemmo vino rosso, un Cune, La Rioja, e quasi piangevamo quando uscimmo nell’aria calda del pomeriggio, mancavano settanta chilometri a Murcia e alle sei ci aspettavano i tori.


Matteo Nucci (prima parte)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)

6 commenti:

RONDA ha detto...

Il testo di Matteo Nucci, per ragioni legate alla sua lunghezza, sarà pubblicato in due parti consecutive.

Anonimo ha detto...

Meglio così, raddoppierà il piacere della lettura!

Anonimo ha detto...

Complimenti questo è un blog straordinario per chi come noi ama la corrida e questo racconto è molto bello molto intenso! Aspettiamo la seconda parta!

Il Baso ha detto...

firmarsi ogni tanto fa schifo???

Anonimo ha detto...

tessera numero 1 del club "senza Nucci non si può"

PS: meno male che il mio pezzo è uscito prima. tutto ciò che esce dopo impallidisce!

Marzia

fabio ha detto...

semplicemente commovente.....