Sabato 12 luglio, alle sei della sera.
Il cielo gonfio e basso, quasi a cadere sulla testa come temevano Asterix e i suoi, e i Pirenei scuri coperti dalle nuvole color cenere, a sovrastare minacciosi l'orizzonte.
L'acqua fredda che si rovescia su tutto e tutti: sulla pista coperta da uno stoico telone, sul cavallo dell'unico alguacil, sulle mantelle degli aficionados che non hanno rinunciato a sedersi sui gradini già fradici, sulla giacchetta del presidente, là in alto al suo posto.
Infine, sulle monteras dei tre toreri, che sbucano dal portone e si affacciano alla timida e opaca luce dell'arena, il volto teso.
Rafaelillo in granata e oro, Cruz in champagne e oro, Lescarret alla loro destra.
Il volto è scuro, tirato, ci sono almeno due problemi di non poco conto: uno sono i tori, l'altro è l'acqua.
I Prieto de la Cal (*), che sicuramente come tutti gli aficionados anche i tre hanno visto nei corrales, mettono paura.
Belli, sono bellissimi: ben fatti, muscolosi ma slanciati, quel colore così elegante del manto.
E soprattutto quelle corna aperte, forti, lunghe.
Bizzarri, i sentimenti di chi va alla corrida.
Per chi siede in alto quelle corna sono magnifiche, un regalo della provvidenza (o dell'Adac, per i laici), per chi cammina in basso sono invece un incubo, una maledizione, un pensiero ossessivo.
Per la Morte, forse, uno strumento.
I Prieto de la Cal sembrano delle stampe, un modello, l'archetipo del toro.
Di quel toro che fà venire l'acquolina agli aficionados e i sudori freddi agli uomini vestiti di luci.
E poi c'è l'acqua.
Che non vuole saperne di farsi da pare, vuole partecipare e farsi protagonista della giornata, che bagna la pista con insolenza e cocciuta.
Piove maledettamente forte.
I pensieri dei tre toreri, delle loro cuadrillas, del presidente e di tutti gli aficionados vanno alla stessa idea: con una pista così bagnata scivolare è più che una sfortunata probabilità, è ormai un'ineluttabile conseguenza, e trovarsi a terra di fronte ad uno di questi cornuti significherebbe, significherebbe...e qua però le fantasie di tutti si tacciono, non osano più, che la scaramanzia è compagna di ognuno, toreri, pubblico, fotografi, musicisti, areneros.
Poi a un certo punto, improvvisamente e come per segno di una precisa regia invisibile, l'aria si ferma, il pubblico resta in silenzio, Rafaelillo fa il primo passo.
E attacca la banda.
Che è una banda un pò speciale, una cobla catalana, così diversa dalle altre che siamo abituati a sentire nell'arena.
Abbarbicata là in alto sugli ultimi gradini, riparata da un esile drappo che faceva sorridere confrontato alla forza degli elementi di quel pomeriggio, seduta sulle sedie di paglia e con un contrabbasso in formazione (!).
Con un suono un pò particolare, a volte stridulo a volte struggente, molto vicino alle orchestre popolari dei nostri appennini, quelle dell'incrocio delle quattro provincie sui monti liguri-emiliani.
Attacca la banda e attacca le note scritte apposta per Céret da Pascal Comelade (*), geniale e originale musicista francese: un bolero straziante e militaresco, un incedere inesorabile e crescente di strumenti e pathos.
Lo si può ascoltare qua, in quella che poi è la versione contenuta nel suo ultimo e maiuscolo disco Methode de Rocanrol (*).
E nello svilupparsi sinuoso di quell'intreccio di note, sulla pista i toreri ad attraversare lenti e con passo pesante le poche decine di metri fino a raggiungere le assi della barrera, fino a salutare il presidente, fino a levarsi i capotes de paseo già fradici, con gesti solenni e preoccupati.
Tutto attorno lo scuro del cielo, il silenzio della gente, lo scroscìo dell'acqua.
Un momento sublime, una sospensione del tempo, una scena dantesca ed epica.
La troppe volte solo recitata tragedia della corrida condensata qui in pochi attimi perfetti, pochi gesti, in un incrocio irripetibile di elementi e cose a scolpirsi nella memoria.
Una sceneggiatura capolavoro, come fare di un paseo un'opera d'arte effimera e monumentale.
In molti e noi tra loro avremmo desiderato che la corrida, poi interrotta dopo il terzo toro, fosse spostata ad un altro giorno.
Chissà cosa avrebbero fatto quei Prieto de la Cal sotto il sole, con la sabbia a fare attrito sotto gli zoccoli.
Chissà come li avrebbero combattuti e come si sarebbero giocati la vita i tre toreri dovendosi concentrare solo sulle corna e sui muscoli e non sulle pozze d'acqua e il rischio di trovarsi per terra ad ogni scarto.
Certo, avremmo preferito.
Ma quel paseo, quei pochi istanti di perfezione e di drammaticità vera ed elettrica, sono una ricompensa grande a scacciare ogni rimpianto, a diventare da subito ricordo sublime ed indimenticabile.
Poi, solo poi, ci sono stati quei tre tori, la meraviglia ad ogni loro uscita in pista, la tensione continua, il coraggio di Rafaelillo e le potenti veroniche di Cruz, sotto il diluvio e davvero enormi, ma questa è un'altra storia, un altro tipo di storia.
Prima c'era stata la poesia.
(foto Ronda: un Prieto de la Cal superstite; foto CyR: il 28 a spingere nel cavallo)
4 commenti:
Objectivement comprends pas tout mais manifestement Céret t'as marqué d'une aficion indélébile récompensée par Campos y Ruedos
chapeau
un saluto
bruno
vi ho scoperti per caso, siete veramente bravi.
un saluto, roberto.
grazie per i complimenti, speriamo che voglia seguire ancora il nostro blog.
grande
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